Macroregione? Pensiamo alle Province

Esistono o non esistono? Stanno ancora lì, monumento alle incertezze e alla paura di compiere scelte “audaci” – Il corsivo di Walter Patalocco

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di Walter Patalocco

Esistono o non esistono le Province? E’ sicuro che non ci sono più i consiglieri provinciali eletti dalla gente e nemmeno le giunte, almeno non come s’intendevano.

Però c’è un ente che si chiama ancora Provincia e che gestisce quelle poche deleghe lasciatele quando, con una modifica al Titolo Quinto della Costituzione, parecchie loro competenze andarono alle Regioni. Tra quelle poche, la gestione e manutenzione delle strade (provinciali, appunto) e degli istituti scolastici per le medie superiori. Poca roba, ma che necessita di parecchi quattrini.

E infatti, tra i mugugni dei Comuni, alle Province sono stati assegnati, nel riparto dei fondi devoluti dal governo centrale, 140 milioni in più. Più soldi per un ente ch’era assurto a simbolo dell’inutilità. Ma forse a torto.

Chissà perché negli anni Settanta del secolo scorso si cominciò a percepire come fumo negli occhi un’istituzione che essendo stata per almeno un secolo e mezzo trait d’union tra Stato e Comuni (e viceversa) aveva funzionato non del tutto male.

In Umbria, per esempio, le forze di sinistra, e soprattutto il Pci, cominciarono a pensare che, istituite le Regioni, le Province non avevano più senso. Ma non perché non c’era più bisogno di un ente intermedio, ora tra Regioni e Comuni, ma perché due province in Umbria erano troppo grandi: ci voleva qualcosa di più piccolo, a mezza strada tra il Comune e la Provincia.

E nacquero così i comprensori, consorzi di Comuni. Una decina, secondo zone territoriali omogenee. Tot comprensori, tot Unità sanitarie locali. E tot associazioni per l’uso e la gestione dei Beni Culturali – si chiamavano così, tot Comunità Montane, ecc. ecc.

Una moltiplicazione di enti, di consigli, di sedie (se non proprio poltrone). In questo quadro si pensò anche ad una terza provincia, ma non ci si mise d’accodo nemmeno su come chiamarla tanto che ci fu chi propose Fospono (Foligno, Spoleto, Norcia). Grande partecipazione democratica, ovviamente, e quindi un vantaggio c’era.
Accadevano queste cose quando la divisione dell’Umbria in due poli cominciava a non piacere più.

Fino ad allora in Umbria c’erano state due province, due prefetture, due Istituti per le case popolari, due provveditorati agli studi, due sedi della Banca d’Italia, due Camere di Commercio, due Federazione Industriali e via dicendo (le Usl non c’erano, all’inizio).

Pure i partiti ricalcavano lo schema: due Federazioni provinciali sia per il Pci che per il Psi, anche se nominalmente esse erano tre perché c’era un occhio di riguardo per Orvieto che legava poco – anche allora – col resto dell’Umbria. Poi nel Pci sparirono le due Federazioni (il Psi si cancellò da solo) e venne il partito delle “Cento città”: tutti comitati comunali, ma Bevagna contava quanto Gubbio o Città di Castello? E Terni, contava quanto Perugia?

Una sinistra comunque decisa a far valere il concetto del “Piccolo è bello”, che – spostato sul livello politico istituzionale – pare una conquista democratica. Poi però non è stato così.

Tanto è vero che la sinistra umbra ha innestato la marcia indietro e poi ha effettuato la svolta a “U”. Un solo concetto è rimasto costante: in un modo o nell’altro le Province erano superate, inutili da buttar via.

E invece stanno ancora lì, monumento alle incertezze e alla paura di compiere scelte “audaci”.

 

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