Ast: dazi all’Indonesia, pericolo non sventato

In vigore da martedì, ma i clienti europei pronti a chiedere maxisconti ai produttori italiani per continuare a comprare a basso costo. E le aziende cinesi si trasferiscono in Vietnam

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Mancano pochi giorni all’ingresso dell’Indonesia nell’elenco dei Paesi in via di sviluppo soggetti alle misure di salvaguardia a tutela della produzione europea di alcuni prodotti siderurgici. Una manovra che mira ad aiutare il settore dell’acciaio in un momento particolarmente complicato e i cui effetti, come ha spiegato l’ad di Acciai Speciali Terni Massimiliano Burelli, saranno valutabili solamente tra qualche mese.

Cosa prevedono le misure

Intanto però è utile chiarire che cosa comporta l’introduzione di queste misure e quali sono le sua criticità. La legislazione comunitaria prevede tre misure principali di difesa commerciale: misure anti-dumping, nei confronti di importazioni effettuate sul mercato comunitario da parte di imprese di Paesi terzi che vendono sul mercato europeo prodotti a prezzi inferiori al prezzo di vendita sul mercato d’origine della merce; misure anti-sovvenzione, nei confronti di importazioni che godono di aiuti e sovvenzioni statali concessi dai governi alle proprie imprese; misure di salvaguardia, che possono essere attivate in presenza di grave danno alle imprese comunitarie derivante da distorsioni del mercato, come ad esempio flussi anomali di importazioni. Quest’ultima è la misura che entrerà in vigore dal 1° ottobre per l’Indonesia, solo successivamente si passerà all’introduzione dei dazi anti-dumping.

Un po’ di storia

Come il termine stesso lascia intendere, il sistema anti-dumping ha come obiettivo eliminare gli effetti della pratica commerciale per cui produttori esteri esportano ad un prezzo inferiore a quello praticato nel loro Paese d’origine, oppure vendono sottocosto. Tali pratiche sono considerate sleali da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) che permette l’introduzione di dazi anti-dumping per eliminare il differenziale di prezzo, a patto che esistano anche evidenti danni materiali per i produttori nazionali dovuti al dumping (elemento non sempre facile da dimostrare). Fu il Canada nel 1904 a introdurre la prima legge anti-dumping, seguito nell’ordine da Australia, Sud Africa, Stati Uniti, Giappone, Francia, Nuova Zelanda, e nel 1921 dalla Gran Bretagna. A partire dagli anni cinquanta e con l’introduzione del General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt), molti altri paesi hanno iniziato a dotarsi di queste leggi e oggi sono pochissimi a non averle.

La guerra commerciale

Per ottenere l’imposizione di dazi anti-dumping, un’industria richiede protezione al proprio governo (nel caso dell’Italia all’Unione Europea, visto che le politiche commerciali sono una prerogativa dell’UE). Segue un’indagine e l’introduzione delle misure nel momento in cui si verifica l’esistenza di dumping e di danni causati ai produttori nazionali. Negli ultimi anni sono India e Cina i Paesi a fare maggior uso di questo sistema. Probabilmente l’attivismo cinese è dovuto al fatto che ad oggi è il Paese più colpito da tali misure. Ne è un esempio il botta e risposta a suon di dazi tra Usa e Cina che ha scatenato la vera e propria guerra commerciale di cui tutto il mondo teme le conseguenze. Questo perché il sistema dei dazi protegge sì dalla concorrenza sleale, ma ha i suoi punti deboli. Il made in China colpito dai dazi ad esempio ha trovato un modo per raggiungere comunque gli Usa grazie alla pratica del trasbordo: i prodotti realizzati in Cina, prima di sbarcare in America, sostano in un Paese terzo dove vengono leggermente modificati per poi riprendere il viaggio in qualità di esportazioni originarie del luogo in cui hanno fatto tappa. Questo trucco commerciale, emerso da un’inchiesta del Wall Street Journal, avverrebbe in Vietnam e troverebbe conferma nei dati sull’export verso gli Stati Uniti e in quelli sull’import dalla Cina: in entrambi i casi sono aumentati nei primi mesi del 2019.

L’altro ‘trucco’

Ancora più utilizzata è un’altra strategia, simile ma più efficace perché completamente legale: dal momento che i dazi colpiscono i beni costruiti in Cina, molte società cinesi hanno pensato di aprire i propri stabilimenti direttamente in un altro Paese del Sud-Est asiatico, come Bangladesh, Vietnam e Malaysia. Paesi dove, tra le altre cose, i salari dei lavoratori sono ancora più bassi di quelli cinesi e il guadagno per le aziende diventa ancora maggiore. La guerra dei dazi rischia quindi di produrre due effetti non considerati dalla Casa Bianca: rafforzare i Paesi asiatici e incrementare i guadagni delle aziende cinesi. C’è un ultimo pericolo in questa difficile battaglia commerciale, più insidioso e difficile da smascherare perché proviene dall’interno, ovvero dai Paesi stessi che si difendono con i dazi. Prendiamo come esempio il caso dell’acciaio e dei nuovi dazi imposti all’Indonesia. L’operazione è nata nel momento in cui anche molti clienti europei hanno iniziato ad orientare i propri acquisti verso l’Indonesia, attratti dal prezzo particolarmente conveniente.

Rischi ancora in agguato

Neppure la lettera inviata a luglio da Antonio Marcegaglia agli allora presidenti del Parlamento e della Commissione europea Tajani e Juncker, in cui il presidente del gruppo dell’acciaio negava alcuna invasione indonesiana per i coil in acciaio inossidabile, è servita a bloccare l’entrata in vigore delle misure di salvaguardia. Il punto è che nessuno vieta ora a questi stessi clienti italiani di chiedere ai produttori nazionali mega sconti che rischiano di essere comunque letali per l’acciaio made in Italy. Così come le aziende cinesi possono trasferire le loro sedi in Vietnam e continuare comodamente i propri affari, i clienti europei, italiani in particolare, possono tenere sotto scacco i produttori nostrani per continuare a comprare al prezzo precedente all’entrata in vigore delle misure.

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