Ospedale di Terni: dodici maledette ore

Essere protagonisti – indiretti, ma molto interessati – di una storia, può essere molto utile per capire quello che può accadere al ‘Santa Maria’ in un giorno qualsiasi

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di Marco Torricelli

Nessun giudizio di merito. Né sulle persone, né sull’ente. Ma un racconto – il più possibile distaccato, visto che la cosa mi ha riguardato personalmente – di quello che può succedere all’ospedale di Terni. Solo i fatti.

Tutto è iniziato poco prima di mezzogiorno di sabato, con l’arrivo al pronto soccorso. Ho accompagnato una persona il cui medico curante, dopo cinque giorni di febbre molto alta e resistente alla terapia antibiotica tradizionale, ha ritenuto opportuno inviarla al nosocomio – c’è un precedente relativo ad una brutta polmonite risalente a circa un anno fa – perché fossero fatti tutti gli accertamenti del caso.

Mezz’ora dopo l’arrivo e l’immediata consegna del documento redatto dal medico curante, la persona in questione è stata fatta accedere (ovviamente da sola) alle sale interne del pronto soccorso.

Due ore e mezza dopo – tre ore dall’arrivo – nessuno l’aveva ancora presa in considerazione. Va detto che la giornata non è stata tranquilla – gli articoli di questo ed altri giornali raccontano di incidenti stradali vari, con feriti trasportati in ospedale – ma la persona in attesa aveva febbre in salita, era spaventata e stava lì, parcheggiata su una sedia. Da sola. Chi aspettava fuori si sentiva rispondere che «i medici faranno sapere quando potranno». E veniva anche negato il permesso di portare una bottiglia d’acqua all’interno (dove non c’è un distributore automatico di bevande).

Cinque ore dopo l’arrivo al pronto soccorso, il primo contatto con un medico. Un sms dall’interno: «Adesso mi visitano». Poi un altro: «Mi fanno il prelievo del sangue e le radiografie». Quindi, nel giro di altre due ore, una serie: «Non mi dicono nulla». «Perché sto ancora qui senza sapere niente?». «Non si sa nulla».

Alle 19 – sette ore dopo l’arrivo al pronto soccorso – decido che forse è il caso di smettere di fare il cittadino che, siccome lì c’è gente che lavora, aspetta e tace: «Sto qui da sette ore – dico alla signorina che sta alla reception – e nessuno si è degnato di uscire a dirmi due parole sulle condizioni della persona che è dentro. Che devo fare?». Forse il modo in cui lo dico (non alzo la voce), o forse è la faccia che ho: mi fa parlare con l’infermiera che sta all’interno e, finalmente, ho il permesso di andare a vedere.

Arrivo proprio mentre una dottoressa sta spiegando alla persona che ho accompagnato che «si tratta di una brutta polmonite ‘muta’ e che riteniamo non sia il caso di curare, come normalmente si fa, a casa e quindi lei dovrà essere ricoverata». Che poi era il motivo per cui il medico di base ci aveva spedito lì, tanto è vero che avevamo al seguito la classica borsa sportiva piena di tutto il necessario.

Alle 20 siamo al reparto di destinazione: il letto è in una stanza a due posti e quando la persona ricoverata va in bagno per cambiarsi, scopriamo che la porta – «è rotta da un sacco di tempo», ci spiega una signora che, evidentemente frequenta spesso il luogo – non si chiude. Trattandosi di reparto ‘misto’, il problema non è trascurabile.

La febbre – è da giorni che veleggia serena sopra i 39 gradi e mezzo appena termina l’effetto della Tachipirina – è tornata a salire e allora, visto che abbiamo solo un copriletto leggero, chiedo una coperta, ma l’infermiera mi dice che «non ci sono più, credo che abbiano già iniziato a ritirarle, visto il cambio di stagione». Si telefona e ci si fa portare le coperte da casa.

Alle 21 arriva il medico di turno: fa il suo lavoro, visita la paziente, riempie la ‘cartella’, ci informa di quello che a suo avviso si dovrà fare nei prossimi giorni e del ciclo di terapie e di accertamenti clinici a cui la persona ricoverata sarà sottoposta.

Poco prima della mezzanotte si tenta di fare un elettrocardiogramma: l’infermiera applica gli adesivi con i terminali da collegare alla macchina, ma quando prova ad avviarla, questa non funziona. «Vado a prenderne un’altra», dice. E infatti poco dopo è di ritorno, ma non funziona nemmeno quella.

A mezzanotte, dodici ore dopo l’arrivo al pronto soccorso, si decide che ci si riproverà domenica mattina. 

 

 

 

 

 

 

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