Pd, Governo ibrido? «Ipotesi da scartare»

L’analisi di Leonardo Patalocco, membro dell’assemblea comunale Pd di Terni e sostenitore della mozione ‘Nativi democratici’

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di Leonardo Patalocco
Membro assemblea comunale Pd di Terni e membro della mozione ‘Nativi democratici’

A seguito delle elezioni del 4 marzo e della formazione del nuovo parlamento, uno dei principali argomenti di discussione che è emerso con forza in questi giorni è la formazione del nuovo Governo che dovrà prendersi l’onore e l’onere di guidare il nostro Paese nei prossimi 5 anni.

La distribuzione dei seggi secondo le modalità previste dalla legge elettorale Rosatellum, come era ampiamente prevedibile, ha generato una situazione per la quale nessuna delle forze politiche che si sono presentate all’elettorato possa ora godere di quella maggioranza solida che le consentirebbe di attuare con forza e chiarezza il programma in base alla quale è stata eletta. Proprio per questa ragione ora il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avrà quindi un compito molto gravoso, cioè quello di cercare quelle convergenze tra le forze politiche al fine di dare una maggioranza stabile a questo Paese.

In conseguenza di ciò hanno fatto molto rumore in questi giorni le affermazioni del segretario uscente del Pd Matteo Renzi, il quale ha precisato la linea politica che il suo partito dovrà seguire da qui alla formazione del nuovo governo: stare all’opposizione senza cercare alleanze o convergenze con nessuno. Le reazioni sono state molteplici: si va da chi ha invocato il famoso senso di responsabilità teso a fornire al Paese un Governo stabile di cui avrebbe bisogno fino a chi invece sposa la linea dell’ancora segretario del Pd.

La linea all’interno del partito, per dire la verità, sembra piuttosto chiara: il 90% dei militanti non vuole entrare in un’alleanza di Governo con il centro destra o con il M5S e forti sono state in questo senso le affermazioni del neo iscritto Carlo Calenda e quelle della minoranza del partito per bocca del suo leader Andrea Orlando.
La voce di contrarietà più forte che si è sollevata, tuttavia, non è arrivata dagli alti esponenti del Pd ma dalla sua base, cioè da quelle persone che come il sottoscritto non hanno incarichi istituzionali di rilievo ma costituiscono la parte più ‘nascosta’ del partito, quella che fornisce impegno (tanto), sacrifica tempo libero (molto) e cerca di dare il proprio contributo con le proprie idee e le proprie conoscenze quando richiesto (troppo poco).

Il senso di questo intervento è proprio questo: cercare di spiegare cosa passa per la testa di un iscritto del Pd in questa fase e perché non approverebbe di appoggiare un Governo a guida centrodestra o M5S, arrivando addirittura in molti casi a minacciare di abbandonare il partito. Le ragioni a mio avviso sono numerose, e la prima riguarda il fatto che l’indicazione di voto dell’elettorato e dei nostri concittadini è stata chiara e colloca il Pd all’opposizione con una percentuale di preferenze che raggiunge appena il 19% (mai il Pd era sceso cosi in basso, nella sua storia).

Un punto chiave di queste elezioni politiche che al Pd non dovrà sfuggire, peraltro, è che il partito non è stato giudicato sulla base di intenzioni, programmi e progetti futuri bensì sul proprio operato, su ciò che ha o non ha fatto, e in base al risultato elettorale il messaggio che ne emerge è molto chiaro: fatevi da parte, in base al nostro giudizio non avete fatto quando ci aspettavamo e quindi adesso tocca ad altri.

Un’indicazione chiara e forte, che non consente al Pd di proporsi ancora, seppur come azionista di minoranza, alla guida del Paese e che anzi gli impone di riflettere su ciò che non è andato e su come ripensarsi e riorganizzarsi per essere quella forza inclusiva, aperta e riformista di sinistra. Un processo del genere richiede tempo e il coinvolgimento di tutte le proprie forze, dal prossimo segretario che si spera venga eletto attraverso le primarie che sono ancora un nostro tratto distintivo (o no?) fino all’ultimo degli iscritti e di chiunque vorrà partecipare ad un processo di ‘ripensamento’ del partito.

La seconda ragione è invece suggerita dall’opportunità o meno di formare un Governo ibrido Pd-M5S o Pd-Centrodestra. Quanto sarebbe efficiente un Governo guidato dal compromesso e dalla reciproca ‘sopportazione’ tra forze politiche che in comune hanno ben poco? Come conciliare il reddito di cittadinanza e il concetto di assistenzialismo da una parte e il concetto, invece, che vede il lavoro al centro del processo di emancipazione e indipendenza di una persona dall’altra? Come conciliare il movimento no-vax con la politica di chi crede invece che la scienza sia la stella polare da seguire nei processi di tutela della salute dei nostri figli? Come conciliare l’europeismo convinto che caratterizza il Pd con l’antieuropeismo caratterizzato dalle altre forze politiche? Come conciliare la flat tax con la convinzione che il principio costituzionale della progressività delle imposte sia un caposaldo irrinunciabile? Su questi temi ognuno ha la sua rispettabile idea ma una cosa è certa: sono due visioni della vita completamente antitetiche e difficilmente in grado di andare di pari passo, e la loro convivenza forzata porterebbe solo a rallentamenti dell’azione politica e a immobilismo istituzionale.

C’è un ultimo elemento: il Pd è stato spesso etichettato con epiteti poco edificanti (ladri, mafiosi, collusi) che hanno riguardato tutti, dalle proprie apicalità ai propri iscritti. Fermo restando che non si capisce il motivo per il quale chi ha questa considerazione del nostro partito e di chi ne fa parte dovrebbe ora cercare di stringerci un’alleanza, resta molto facile rispondere che nessuno di noi ha intenzione di dare sostegno a chi ha sempre avuto questa considerazione dell’iscritto Pd alzando i toni dello scontro politico oltre il limite.

Quest’ultimo elemento di cui parlavo è identificabile in una cosa chiamata dignità politica, che comprende molte sfumature. La dignità politica non è solo quella che non ci permette di accettare un’alleanza con chi ci ha dipinti come il male assoluto del paese. La dignità politica è anche un elemento fondamentale nella vita di chi intende occuparsi della cosa pubblica in maniera seria, trasparente e soprattutto a schiena dritta. Sarebbe dignitoso politicamente accettare di andare al governo per ritrovarsi a smantellare quanto fatto da noi stessi nei 5 anni appena trascorsi di una legislatura che ci ha visto compiere errori ma anche cose buone? Sarebbe possibile per il Pd mettersi al governo per sconfessare quanto fatto da lui stesso? Sarebbe opportuno per un partito nato con la vocazione maggioritaria accettare di fare da ‘stampella’ ad un’altra maggioranza pur di restare sulla poltrona del comando?

La risposta è no, non lo sarebbe, e non tanto per una questione di orgoglio, ma perché il messaggio che passerebbe sarebbe sbagliato, un messaggio che direbbe alle persone che pur di restare a galla a dispetto della volontà di tutto e di tutti si è pronti a sconfessare sé stessi e a quello in cui si crede, giusto o sbagliato che sia.

Il mio è il punto di vista di un semplice iscritto come tanti altri che in questi giorni stanno cercando di far sentire la propria voce: adesso per il Pd non è tempo di governare, è tempo di ricostruire, è tempo di capire dove si è sbagliato e cosa di buono si è fatto e si può salvare, è tempo di lasciare giustamente una possibilità a chi fino ad ora non l’ha avuta lasciando spazio ad una sana alternanza politica, è tempo di ascoltare e non di parlare, è tempo di dare forza a chi lo compone e vuole dare il suo contributo in maniera sempre piu’ coinvolgente e aperta. La nostra responsabilità adesso è questa.

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