Perugia, ‘Big Rock’: torna in carcere il boss

Uno dei vertici del sodalizio era ai domiciliari per reati simili. Vivevano nella paura di essere intercettati: «Non ho paura dello stato, io ho paura degli albanesi»

Condividi questo articolo su

Gli inquirenti lo hanno individuato come uno dei capi della banda di spacciatori, non a caso è uno dei 9 arrestati sul cui capo pende l’accusa di associazione per delinquere ai fini di spaccio. Si è appena fatto un anno di carcere per un reato analogo e – i dettagli emergono in queste ore – era stato scarcerato da pochi giorni per finire ai domiciliari, nella sua casa nei pressi del Trasimeno. Lo stesso domicilio dove poi i poliziotti lo hanno trovato per riportarlo a Capanne, mercoledì sera, durante l’operazione ‘Big Rock’.

Nome evidenziato Fatjon Cardaku, detto ‘Fabio’, è uno dei nomi che gli inquirenti hanno segnalato con l’evidenziatore sui loro appunti. Potrebbe essere lui – le conferme dovrà darle la magistratura – uno dei capi dell’organizzazione a delinquere ipotizzata dagli investigatori che avrebbe invaso Perugia di cocaina, rispondendo alle richieste dei tanti consumatori che si approvvigionano di ‘neve’ nel capoluogo umbro. Proprio per possesso di un grosso quantitativo di droga Cardaku era finito in carcere, oltre un anno fa.

Rischio di fuga Detenzione a Capanne terminata lo scorso 4 gennaio grazie alla concessione dei domiciliari. Una condizione che aumentava a dismisura il rischio di fuga. Un rischio troppo alto: un eventuale allontanamento dall’Italia di Cardaku avrebbe potuto mandare a monte tre anni di indagini. Potrebbe essere questo, quindi, uno dei motivi che hanno portato la Procura ad accelerare le operazioni e a far sì che la squadra mobile, mercoledì notte, mettesse a segno l’arresto di una quindicina di albanesi.

‘Quelli del Ponte’ Ma erano albanesi anche alcuni clienti assidui del gruppo capeggiato da Halili e Cardaku che venivano semplicemente soprannominati come ‘quelli del Ponte’, dediti a rifornire di droga le piazze di Ponte San Giovanni, San Sisto, Santa Lucia e San Marco. Almeno cinque soggetti, identificati dalla polizia, che costituivano «un’unità omogenea, che opera secondo modalità comuni, desumibili dai continui rapporti tra i componenti, dagli scambi di autovetture e cellulari di ‘lavoro’». Un vero e proprio team unitario con cui i due capi della banda criminale trattavano senza scrupoli e si fissavano appuntamenti per le consegne, anche in mezzo alla strada e nel pieno pomeriggio.

Le intercettazioni Tutto il gruppo temeva di essere intercettato dalle forze dell’ordine, per questo, eccetto che all’interno delle proprie autovetture, al telefono utilizzavano un linguaggio criptato e, proprio Cardaku, era sempre attento a non intestare utenze a suo nome, cambiando di continuo schede telefoniche. In auto, invece, si parlava in libertà, si consegnava cocaina e si parlava di affari, pagamenti, possibili infedeltà da parte dei sodali e si cercavano soluzioni. Così se Francesko Halili, secondo gli inquirenti, era al vertice dell’organizzazione, il suo braccio destro Cardaku si occupava direttamente della consegna della cocaina ai propri clienti, spacciatori anch’essi di vecchia data che acquistavano quantitativi importanti.  

I timori «Soggetto di non trascurabile spessore criminale – secondo gli inquirenti – stabilmente dedito al commercio di stupefacente», Cardaku si è mostrato sempre come dotato di inusitata scaltrezza, per non farsi scoprire dalla polizia. Limitava quanto più possibile le comunicazioni a voce, sia con i suoi sodali che con i clienti. Ma ancora più che delle forze dell’ordine, il timore era che alcuni connazionali, prima o poi, scoprissero dove nascondevano la droga, nei boschi intorno al Trasimeno. «Ti colpiscono e ti ammazzano porca…. Non è questione che ti arrestano – si legge in un’intercettazione mentre parla con un collaboratore – ma ti ammazzano amico, io non ho paura dello stato, io ho paura degli albanesi».

Condividi questo articolo su
Condividi questo articolo su

Ultimi 30 articoli