Siderurgia in crisi, dazi e prezzi pesano

Ast risente di una situazione internazionale tutt’altro che favorevole. Ma forse si dovrebbe cercare una maggiore unità ad ogni livello

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Sono diversi i motivi per cui l’industria dell’acciaio inox italiana, europea e addirittura mondiale vive da qualche mese una crisi importante. Tra questi, uno dei più rilevanti riguarda il prezzo del nickel che, da inizio luglio, è letteralmente decollato, fino ad arrivare sopra i 18 mila dollari per tonnellata quando l’Indonesia – primo fornitore mondiale – ha confermato che anticiperà a dicembre il divieto di esportazione di minerali grezzi.

Cambio di rotta in Indonesia

Il divieto denota la volontà del governo di Giacarta di sviluppare un’industria nazionale di lavorazione dei minerali a più elevato valore aggiunto, con l’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione, spostare le produzioni verso segmenti più alti della catena del valore e attrarre investimenti nel comparto della trasformazione delle materie prime estratte. Ma allo stesso tempo avrà un ulteriore effetto al rialzo sul prezzo, con importanti ricadute sul commercio internazionale.

Effetti a cascata

L’industria dell’acciaio inox è la prima fonte di domanda di nickel con circa il 70% dei consumi, per questo chi doveva comprare ha fermato gli acquisti, sperando in una diminuzione dei prezzi. Da qui il calo degli ordinativi per le acciaierie e gli effetti che conosciamo: non solo l’applicazione della cassa integrazione per Acciai Speciali Terni, ma anche Arvedi, ad esempio, che ha annunciato la chiusura della Ferriera di Servola. 

Cosa si può (e deve) fare

A pesare sulle sorti dell’industria siderurgica europea si aggiungono inoltre gli effetti dei dazi imposti dall’America che comportano l’arrivo del materiale a basso costo proveniente dall’oriente direttamente in Europa. È evidente che solo le istituzioni possono intervenire per arginare il danno. Le istituzioni europee, sicuramente che devono rispondere al problema Indonesia e ai dazi in maniera più decisa e veloce, ma perché non anche quelle locali?

Il ruolo delle regioni in Europa

È dal 1994 che le regioni italiane possiedono una propria sede di rappresentanza a Bruxelles. La prima ad aprire fu l’Emilia Romagna, l’ultima è stata la Campania nel 2002. Dopo la riforma del Titolo V, è iniziato il progressivo insediamento delle regioni italiane a Bruxelles, anche in risposta al nuovo processo partecipativo nelle politiche comunitarie che va sotto il nome di Europa delle Regioni, già tracciato nel Trattato di Maastricht con la creazione del Comitato delle Regioni, ruolo poi ulteriormente ampliato con quello di Lisbona. Oggi ognuna delle venti regioni italiane, comprese le due province autonome, ha una propria sede di rappresentanza a Bruxelles, come del resto la stragrande maggioranza delle centinaia di altre regioni europee.

E quello dell’Umbria

La sede della Regione Umbria a Bruxelles è stata istituita nel 1999 con l’intento di consolidare il collegamento con le istituzioni europee, renderlo costante e promuovere a livello europeo il sistema regionale. Le attività della sede di Bruxelles riguardano la rappresentanza politico–istituzionale degli interessi regionali presso l’Unione europea, la costruzione e tenuta di regolari rapporti con le istituzioni, gli organi e le agenzie decentrate dell’UE, l’attività di networking e scambio con le regioni europee e con il sistema-Italia, la costante attività di informazione sulle politiche e sugli strumenti finanziari dell’UE, l’assistenza tecnica e amministrativa a progetti europei ed il supporto organizzativo alle iniziative di promozione territoriale nell’area di Bruxelles. Navigando sul sito web però, tra i documenti allegati e le iniziative promosse, non c’è traccia del tema dei dazi sull’acciaio né tanto meno della preoccupazione manifestata dalla Regione nelle ultime ore sulla procedura di cassa integrazione annunciata da Ast. Un fronte comune a Bruxelles non potrebbe essere, al contrario, un migliore punto di inizio per combattere la stessa battaglia?

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