Suicidi in Umbria: «Attenti ai segnali»

La sociologa Maria Caterina Federici: «Bisogna monitorare e fare rete per prevenire un drammatico fenomeno che si configura come un vero e proprio allarme sociale»

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Un fenomeno spaventoso in crescita continua quello dei suicidi. In Italia secondo le stime sono 4 mila ogni anno e sono diventati la principale causa di morte nella fascia 15-29 anni. Ma il trend è in aumento anche nella fascia 25-69 nella quale c’è stata un crescita del 12 per cento. La situazione è preoccupante anche in Umbria dove tra 2016 e 2017 ci sono stati almeno 20 casi, sette dei quali solo nel 2017. Va però considerato che questi sono solo i suicidi riportati dai giornali, quindi i dati potrebbero essere ancora più alti, se si considera il fatto che non tutti vengono raccontati e che altri non vengono riconosciuti come tali. A questi vanno aggiunti i tentativi non andati ‘a segno’ che tra 2016 e 2017 sono stati quattro. Sembra che a togliersi al vita siano sempre più gli uomini, mentre il numero tra le donne è in calo. Nella nostra regione, infatti, i suicidi analizzati hanno tutti come vittime uomini sui 40 anni. Solo uno ha visto interessata una ragazza di 28 anni.

Maria Caterina Federici

di Maria Caterina Federici
Professore ordinario di sociologia generale del dipartimento di filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell’università di Perugia

I recenti, dolorosi fatti di cronaca fanno riemergere criticità che sono all’origine di importanti riflessioni che hanno un valore attuale.

Quando nelle società europee si sviluppò la prima modernità industriale, segnatamente a Parigi, si ebbe un importante aumento di suicidi. Il prefetto di tale città se ne allarmò e chiamò Emile Durkheim, uno dei primi studiosi ad aderire al nascente movimento di idee, teorie e paradigmi che prese poi il nome di Sociologia. ‘Le Suicide’, del 1897, fu l’esito della sua analisi.

Ancora oggi, se vogliamo affrontare questo dolente tema, le riflessioni di Durkheim pur rivisitate da Halbwachs e da Douglas in anni recenti mantengono intatte la loro valenza scientifica e la loro applicabilità nel tentativo di ‘cum-prendere’, nella sua complessità, il problema.

Perché una persona giunge alla dolorosa determinazione di sopprimere la sua vita, soffocando l’istinto che induce in ciascuno di noi a sopravvivere? Il suicidio non può essere semplicemente ricondotto ad un disagio psicologico, ad una soluzione ‘strategica’ data da un individuo a problemi esistenziali, né semplicemente ad una malattia. In esso grande importanza hanno le variabili sociali.

L’adattamento dell’individuo alla società presuppone che l’individualità non sia troppo frustrata, né troppo sviluppata; se è troppo sviluppata si ha un individualismo eccessivo, l’egoismo che porta all’isolamento e a porsi fuori del proprio ambiente, egoismo oggi favorito dalla mancanza di dialogo nelle famiglie e dall’eccessivo uso delle tecnologie e dei social network. Diversamente, se l’individualità è frustrata e impedita nell’azione relazionale, se si ha una delusione amorosa, se si vive un insuccesso economico, professionale, nello studio, ecc. si può cercare una soluzione ‘liberatoria’ nel suicidio.

È questo il caso di molte persone che perdono il lavoro, vivono una separazione, un divorzio, la fine di una relazione in solitudine e senza una rete familiare e amicale di supporto come una sconfitta, la fine di un progetto, un fallimento che annulla la volontà di riuscire a ricostruire la propria vita in maniera così drammatica da arrivare al gesto estremo di sopprimerla.

A volte questi gesti vengono ‘annunciati’, estremo tentativo di richiesta di aiuto, di cercare una ‘mano tesa’ anche nei social-network cui aggrapparsi – come recentemente in un caso di un giovane trentacinquenne a Terni -, non sempre tale estremo tentativo evita il suicidio. Nella Parigi di fine ‘800 si evidenziò anche un tipo di suicidio che sta tornando di drammatica attualità, il suicidio anomico, il suicidio indotto dal disorientamento, dal non sapersi riconoscere nelle norme, nelle abitudini, negli obiettivi della comunità in cui si vive o si sta tentando l’inserimento lavorativo, familiare, amicale, amoroso, ecc.

Tale tipologia di suicidio è riscontrabile tra gli immigrati ma anche tra persone apparentemente inserite, spesso anziani, spesso malati, sempre soli. Dall’esame di alcuni dati si evidenzia che i suicidi ‘riusciti’ riguardano in misura maggiore gli uomini, mentre i tentativi di suicidio riguardano maggiormente le donne e gli adolescenti. Nei periodi di grave crisi politica o di guerra, il tasso di suicidi diminuisce, nelle società a cultura religiosa protestante il tasso di suicidi è più alto, in quelle cattoliche più basso a testimonianza dell’importanza del ‘fare comunità’ come antidoto al suicidio.

Il fenomeno che ha molte modalità di rappresentazione, pur drammaticamente attuale e statisticamente rilevante, non è sufficientemente affrontato nelle scuole, nella formazione degli operatori della sicurezza, nei luoghi di aggregazione sociale, luoghi in cui si potrebbero monitorare i segnali di disagio, di isolamento, di anomia, preparatori di una decisione che può condurre al suicidio se il suicidio è una risposta estrema ad una situazione che non si sa affrontare. Le motivazioni del suicida sono difficilmente analizzabili ma i segnali premonitori di una decisione che porterà al suicidio possono essere rilevati.

C’è poi il tema, oggi molto dibattuto, del suicidio assistito ma questo è un tema che riveste una complessità culturale di tutt’altro spessore che richiede un approfondimento a parte. Quello che si vuole mettere in evidenza è che è necessaria una maggiore attenzione da parte degli educatori, degli operatori sociali e della sicurezza, dei medici di base che operano sul territorio al fine di monitorare i segnali e fare rete nella prevenzione di un drammatico fenomeno che si configura come un vero e proprio allarme sociale.

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