Terni: «Abbandonati nella disgrazia»

Roberta Sala, la donna precipitata nel vuoto dopo che una grata ha ceduto sotto i suoi piedi, racconta il calvario suo e del marito Stefano, licenziato dalla proprietà ex Novelli

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di F.T.

Quando la vita decide di accanirsi, c’è poco da fare. Non ci pensa due volte e non da tregua. Di fronte a certe situazioni, l’unica cosa da fare è non mollare, lottare, tenere duro. Facile a dirsi. Molto meno trasformare le parole e gli sproni di chi ci vuole bene, in fatti. Roberta ci sta provando con tutte le sue forze e sicuramente ci riuscirà. Anche se le prove che da mesi la vita le sta mettendo di fronte, sono difficili da affrontare. Quando di punto in bianco non sei più autonomo e inizi a dipendere completamente dagli altri, quando perdi anche l’intimità, la prima cosa che viene messa in discussione è la propria dignità. Ma la testa di Roberta, così come dei suoi cari, è sempre alta. E fra un pianto e un momento di sconforto, c’è ancora la voglia di battersi per tornare come prima. Magari a camminare, come nel suo caso. Un passo alla volta, in ogni senso.

Un volo di quattro metri

Mattina maledetta La vita di Roberta Sala, 53 anni compiuti da poco, è cambiata quella maledetta mattina del 17 maggio, quando entrando in uno studio medico di via Malnati per una visita cardiologica, la grata su cui stava passando aveva ceduto di colpo, facendola precipitare nel vuoto da un’altezza di quasi quattro metri. Soccorsa da 118 e vigili del fuoco, Roberta era stata trasportata d’urgenza in ospedale, in condizioni gravissime. Il suo calvario era appena iniziato.

ROBERTA RACCONTA IL SUO DRAMMA – VIDEO

Calvario «Quando dopo la caduta mi sono trovata lì sotto – racconta – in quella specie di scantinato, la prima cosa che ho fatto è stata togliermi la grata di dosso. A quel punto ho visto la tibia ormai fuori dalla gamba destra e la macchia di sangue sui pantaloni che si stava allargando a vista d’occhio. Ho urlato, chiesto aiuto, mio marito era lì ed è stato il primo a precipitarsi per aiutarmi. Poi sono finita in ospedale e mi hanno subito operata».

Viti e placche nelle gambe

Sotto i ferri Quel giorno Roberta ha trascorso oltre dieci ore in sala operatoria fra interventi neurochirurgici – alla colonna vertebrale – ed ortopedici per stabilizzare le fratture, fra cui quella ‘esposta’ – di tibia e persone – alla gamba destra e quella ‘trimalleolare’ all’arto sinistro. Dopo le operazioni, la donna è stata ricoverata in rianimazione in prognosi riservata. Poi, dopo una decina di giorni, è stata trasferita in ortopedia e sottoposta ad altri interventi per applicare viti, placche di titanio, provare a salvare quella funzionalità che temeva – e teme – di aver perso definitivamente. Al Santa Maria c’è rimasta per un mese: il 16 giugno è tornata a casa («medici e personale, sono stati tutti eccezionali. Ma non avrei resistito un giorno di più») e lì è iniziata la trafila delle medicazioni, con frequenti spostamenti in ospedale a bordo di un’ambulanza, così come delle ennesime prove da affrontare.

Un’altra vita «Lavoravo ‘a partita Iva’, come responsabile commerciale per aziende di telefonia. Oggi invece – dice – mi ritrovo con dodici fra placche e viti impiantate nella colonna vertebrale, per tenerla ferma. La vita mia e dei miei cari è cambiata in un istante. Per sempre. Ora sono costretta a passare gran parte del tempo a letto. A volte, se ci riesco, con la sedia a rotelle raggiungo una poltrona e mi siedo un po’ lì. Camminare è un sogno ma voglio farcela».

Le gambe di Roberta

«Disabile in un secondo» Due figli poco più che ventenni e disoccupati, il marito – Stefano – senza lavoro dallo scorso 10 agosto (e più avanti spiegheremo perché). La famiglia di Roberta si ‘regge’ sulla pensione di suo padre, anziano e disabile. Ci campano in cinque e fra spese mediche, terapie, farmaci, arrivare alla fine del mese è sempre più difficile. Ma a pesare, più di qualunque altra cosa, è il non poter cancellare con un colpo di spugna tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi: «Prima, questa casa (lei e la sua famiglia vivono a Collescipoli, ndR) era aperta a tutti, a pranzo e a cena, piena di amici per i quali mi dilettavo a cucinare, una mia grande passione. Poi facevo sport, sciavo, andavo a cavallo. Adesso, invece, mi sento solo un peso, inutile. Ho perso anche l’intimità. Diventare disabili in un secondo è durissimo, anche per le conseguenze psicologiche. Per dormire, sono costretta a prendere le gocce. Se vedo qualcuno avvicinarsi alla finestra, inizio ad urlare per paura che possa cadere. Vivo in un continuo stato di ansia, di angoscia che non mi abbandona mai».

La spina dorsale di Roberta

Triste aneddoto In ospedale Roberta è stata seguita da uno psicologo che ha svolto appieno il suo compito. Tornata a casa, lo studio legale di Montecatini a cui si è rivolta per vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni patiti, l’ha fatta contattare da uno psicologo di fiducia che, oltre a stabilire subito un ottimo rapporto, le ha assicurato: «Tranquilla, cercherò un collega su Terni che possa supportarmi. Così da poter raggiungere presto i nostri obiettivi». Risultato: il professionista, dopo aver contatto inutilmente alcuni psicologi, ha gettato la spugna. «Nessuno di quelli sentiti – racconta la donna – ha accettato l’anticipo fattura, ovvero di essere pagato soltanto dopo che avrò ricevuto il risarcimento. Meno male che ci sono eccezioni, come il dottor Triola che ha accettato di assistermi nonostante le difficoltà economiche del momento. E un grazie per quanto fatto, se posso, va anche al personale dell’ospedale che è stato eccezionale, i dottori Carlo Conti, David D’Eramo, tutto il personale della rianimazione e la sua responsabile, Rita Commissari».

Costretta a letto

La richiesta danni Quello legale e risarcitorio – non ancora giudiziario, visto che il fascicolo è fermo in procura in attesa che Roberta decida se sporgere denuncia penale o meno – è un altro capitolo importante che potrebbe restituire un po’ di serenità alla sua famiglia. La richiesta di risarcimento danni è stata intentata al condominio di via Malnati che, probabilmente, chiamerà in causa colui che ha realizzato i lavori. «Da parte dello studio medico invece – dice la donna – non c’è alcuna responsabilità, anzi sono stati gentili e mi hanno contattata per sincerarsi delle mie condizioni. Speriamo che si possa risolvere tutto in tempi celeri, magari con una provvisionale che intanto ci consenta di tirare avanti. Perché diventa quasi impossibile vivere quando puoi fare affidamento solo sulla pensione di tuo padre – e noi siamo in cinque -, quando ci sono affitto e bollette da pagare, quando le spese mediche si ‘mangiano’ tutto, quando noleggiare l’unico supporto (la ‘sedia scoiattolo’, ndR) che ti consentirebbe di rimettere il naso fuori di casa, fare quattro chiacchiere, costa 300 euro al mese. Una spesa, questa, che non siamo in grado di sostenere. Basti pensare che per arrivare alla fine del mese, abbiamo chiesto un piccolo prestito di 200 euro in banca. E poi il lavoro: ci mancava solo il licenziamento di mio marito».

Una grana dietro l’altra ‘Quando la vita decide di accanirsi, c’è poco da fare’, scrivevamo all’inizio. Perché in mezzo a questo susseguirsi di eventi che toglierebbero la forza a chiunque, è piombato il licenziamento di Stefano – il marito di Roberta -, per ben 17 anni dipendente della Novelli Service come trasportatore. Un’altra odissea, la sua, che ora rischia di finire in tribunale, con l’impugnazione del provvedimento di fronte al giudice del lavoro. Uno stipendio ancora da prendere («quello di luglio era atteso entro il 18 agosto ma ad oggi non s’è visto un euro»), altre mensilità arretrate, finite nelle ‘maglie’ del concordato presentato dalla Alimentitaliani, la società che ha rilevato la ex Novelli in seguito ad un accordo al ministero dello sviluppo economico. E una ‘via crucis’ conclusa, per il momento, con la beffa più atroce.

Roberta e suo marito Stefano

Cacciato «Da quando ho scoperto di avere sei ernie, era il febbraio del 2016 e le mie gambe si erano improvvisamente bloccate mentre stavo effettuando un trasporto lungo la E45 – racconta Stefano -, per me non c’è stata più pace. Mi sono messo in malattia e dopo un periodo di comporto di sei mesi ed un altro mese di ferie, ad ottobre dello scorso anno l’azienda mi ha improvvisamente messo in aspettativa non retribuita. Zero euro in busta paga». Roberta, che al tempo stava bene, aveva supportato in tutto e per tutto il marito nella sua battaglia, ottenendo nel tempo alcune somme – fra cui 2 mila euro lordi a titolo di anticipo del Tfr – che hanno consentito alla famiglia di tirare avanti per un po’. Lo scorso febbraio Stefano, dopo un incontro con il nuovo capo ufficio personale, si è rimesso in malattia con la stessa patologia. «Anche il medico aziendale aveva dichiarato la mia inabilità alla guida ed al sollevamento di carichi oltre un certo peso, senza indicare termini temporali. La mia speranza era di trovare un nuovo impiego in azienda, compatibile con le mie condizioni di salute. Ma in primavera una lettera mi ha ‘avvisato’ che al termine del periodo di comporto, sarei stato licenziato. Abbiamo impugnato il provvedimento che la stessa Direzione territoriale del lavoro ha respinto per ben tre volte, evidenziando incongruenze fra il certificato originale in mio possesso e quello esibito dall’azienda. Ma la Alimentitaliani ha voluto tirare dritto per la propria strada. Il 30 luglio è scaduto il buono malattia che, seguendo le indicazioni, ho prolungato per altri dieci giorni. Perché, mi era stato detto, c’erano da definire alcune ‘questioni che mi riguardavano’. Il 10 agosto, invece, sono stato licenziato e ora, a 58 anni, sono in mezzo ad una strada».

Protesta in tribunale degli ex Novelli

La parentesi Su un piano diverso, il dramma di Stefano è anche quello dei 33 lavoratori ex Novelli finiti in cassa integrazione straordinaria ma che non hanno ancora visto un euro. E che giovedì, con una nota, sono tornati a far sentire la propria voce: «Loro vanno in vacanza – scrivono – noi invece non abbiamo i soldi per mangiare. Questa è la cruda realtà, signori. Da quattro mesi non percepiamo alcuno stipendio. È una realtà paradossale quella cui siamo venuti a conoscenza in questi giorni. Non siamo pagati perché la nostra azienda, Alimentitaliani, non ha preparato i documenti necessari necessari all’Inps per dar corso alle erogazioni. Il tutto mentre l’ufficio personale della società è in ferie. È una vergogna. Sono mesi che denunciamo un atteggiamento discriminatorio nei nostri confronti. Abbiamo scioperato e ci ritroviamo fuori dall’azienda senza un futuro.Ora siamo proprio ridotti alla fame: cosa altro dovrà accadere?».

Le fratture a tibia e perone

«Dove sono le istituzioni?» In una fase così delicata della vita, loro e della loro famiglia, Roberta e Stefano qualche domanda la vogliono porre: «In situazioni come quella che ci troviamo a vivere – si chiedono – dove sono le istituzioni? Chi ci tutela? Il ‘welfare’ dov’è? Per fare un esempio – dice Roberta – abbiamo contattato la Usl per avere gratuitamente la sedia che mi consentirebbe di uscire un po’ di casa. Psicologicamente sarebbe importante, dopo i mesi trascorsi fra letto e divano. Mi è stato chiesto se avessi un’invalidità dichiarata. Ma la mia è temporanea, in attesa che la situazione si stabilizzi e che qualcuno certifichi definitivamente il danno permanente subìto. Risultato: per me non c’è alcuna possibilità di accedere a diritti del genere, tanto meno un sussidio. Questa non è vita, ma è sopravvivenza. E fortuna che non pago l’ambulanza, anche se ogni volta che devo andare a fare le medicazioni, chi guida deve stare attento alla strada. Non una, ma cento volte, viste le condizioni disastrate di via Luigi Masi, a Collescipoli. Una strada che sembra il risultato di un bombardamento. Anche questo, la logistica, non aiuta a riprendersi. Cosa vorrei ora? – conclude Roberta – Forse un paio di gambe nuove. O forse la speranza di poter tornare a condurre una vita normale, dopo tanti mesi di buio assoluto».

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