Umbria, ‘povere’ donne «Pensioni ridicole»

La ricerca dello Spi Cgil parla di una media inferiore del 40% rispetto a quella degli uomini. Una situazione diffusa in Italia, meno all’estero

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di G.N.

‘Differenza di genere: le pensioni povere delle donne umbre’: questo il tema dell’incontro avvenuto lunedì mattina alla sala Partecipazione di palazzo Cesaroni, promosso dallo Spi Cgil dell’Umbria. In particolare, da una ricerca realizzata dal sindacato dei pensionati è emerso che le pensioni delle donne, in Umbria, sono più basse di oltre il 40% rispetto a quelle degli uomini. E che – ha spiegato la segretaria generale regionale dello Spi, Maria Rita Paggio – «in Umbria il divario è ancora più marcato rispetto ad altre realtà nazionali. Tra le cause, un modello di sviluppo incentrato sul lavoro maschile».

Leggi ‘nemiche’

La segretaria nazionale dello Spi Cgil, Daniela Cappelli, ha sottolineato con preoccupazione che «le differenze, se non si dovesse intervenire in tempo, sono destinate ad aumentare per più motivi: prima di tutto, perché il problema del lavoro non è risolto, perché c’è una legislazione del lavoro penalizzante per i diritti e quindi per le donne, come pure una legge sulla previdenza che non favorisce i giovani».

Le donne e la legge Fornero

«La legge Fornero – è stato detto – penalizza in modo particolare le donne perché, ha aumentato bruscamente l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia per tutte le lavoratrici portandola, già nel 2018, a 66 anni e 7 mesi; ha aumentato a 20 anni il requisito contributivo minimo per accedere alla pensione di vecchiaia. Inoltre ha introdotto l’ulteriore vincolo del reddito: l’importo della prima rata di pensione non può essere inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale per poter accedere alla pensione di vecchiaia. Oltre a ciò ha eliminato l’integrazione al minimo, che riguarda soprattutto le donne. Ma anche il sistema contributivo fa la sua parte, penalizzando in modo consistente le carriere contributive irregolari e più corte, con periodi di non lavoro, di lavoro a tempo ridotto, con retribuzioni basse».

La proposta della Cgil per una pensione di garanzia

La proposta della Cgil per una pensione di garanzia parte da alcune considerazioni: «L’equità attuariale non equivale all’equità sociale; il sistema contributivo non prevede alcun paracadute per i rischi nel mercato del lavoro: periodi di disoccupazione, periodi di bassi salari, periodi di tempo di lavoro ridotto, periodi di contratti atipici che generano nel loro complesso bassa contribuzione. Il problema delle basse pensioni per coloro che hanno incontrato difficoltà sul mercato del lavoro non possono essere risolti dal ricorso alla previdenza integrativa, perché i lavoratori con carriere discontinue e bassi salari non sono in condizioni di accedervi, ne consegue che i meccanismi compensativi per tutelare i futuri pensionati e pensionate dal rischio povertà devono essere previsti all’interno del sistema previdenziale pubblico».

Alcuni dati

Già nella fascia di reddito tra i 1.500 e i 1.900 euro le donne sono in netta minoranza. Le pensioni che usufruiscono di maggiorazioni sociali riguardano 5.372 uomini e 18.788 donne. Il differenziale cresce con l’aumentare delle pensioni medie: è più alto nei paesi che da più tempo calcolano le pensioni con il metodo contributivo ed è molto basso in quelli (Svezia e Danimarca) dove il trattamento previdenziale è in larga misura a carico della fiscalità generale.

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