Autolavaggi, un arresto per caporalato

Città di Castello, ai domiciliari un 23enne egiziano. Manodopera impiegata 12 ore al giorno per un compenso di 30 euro

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di G.N.

Un autolavaggio ‘low-cost’ sequestrato, un egiziano di 23 anni agli arresti domiciliari e il fratello di 27 ricercato: è questo il bilancio dell’operazione del comando carabinieri per la tutela del lavoro, illustrata in una conferenza stampa martedì mattina dal comandante provinciale dei carabinieri di Perugia Giovanni De Bellis e dal luogotenente Angelo Borsellini, insieme all’ispettore del lavoro Sabatino Chelli e da Bartolini della stazione carabinieri forestale di Città di Castello. A carico dei due egiziani, l’accusa è di ‘caporalato’, ovvero intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, ma anche per falso per induzione in errore e per altre violazioni inerenti alla prevenzione infortuni sui luoghi di lavoro e reati ambientali. L’ordinanza è stata eseguita lo scorso 7 giugno, a Città di Castello. Indagini, quelle sugli autolavaggi low-cost, che si stanno effettuando in tutta Italia e che hanno portato a 39 arresti dall’inizio dell’anno.

Il caporalato

L’attività era iniziata nel 2017 a opera del fratello 27enne. La società è poi passata di mano al fratello arrestato, ma nella sostanza nulla è cambiato. Quattro i lavoratori sfruttati, tre dei quali in regola e uno in nero. Erano tutti di origine egiziana, fra i 18 e i 23 anni, tre dei quali con regolare permesso di soggiorno, ma privi di qualunque tutela lavorativa: lavoravano 12 ore al giorno, venivano pagati 30 euro al giorno, a fronte di una piccola pausa per il pranzo, pochi minuti, compresa la domenica, in cui lavoravano mezza giornata. I quattro dovevano versare al datore di lavoro la quota per il posto letto: 150 euro mensili, più le spese per le utenze, una somma superiore a quanto il datore doveva al proprietario. Una volta partite le indagini, i quattro lavoratori hanno collaborato. In un caso, è stata anche accertata la violenza del datore di lavoro verso un lavoratore che si rifiutava di riprendere l’attività.

Firme e certificati falsi

Dalle indagini è emerso che il certificato di conformità dell’impianto elettrico dei locali adibiti a luogo di lavoro era falso: la firma, infatti, è stata disconosciuta dal tecnico che avrebbe dovuto rilasciarla. Ma falsi erano anche i certificati medici dei lavoratori: alla visita medica si presentavano altri soggetti, ma con i documenti di identità dei lavoratori che dovevano essere visitati. Altra atto falsificato, quello della Scia. La dichiarazione inoltrata al Comune per l’inizio attività (Scia) è risultata falsa, poiché vi era stato espressamente dichiarato il pieno rispetto della normativa sulla prevenzione degli infortuni, che è risultata, invece, del tutto disattesa.

Multati per 6 mila euro

I lavoratori erano stati impiegati senza che fossero stati sottoposti ai prescritti accertamenti sanitari, senza che fossero stati consegnati i prescritti dispositivi di protezione individuale, senza la prescritta formazione circa i rischi inerenti alle loro mansioni, i possibili danni e le conseguenti misure di prevenzione e protezione dai rischi specifici di lavorazione, senza che fossero garantite le condizioni minime di salubrità dei luoghi di lavoro, senza aver effettuato la prescritta valutazione dei rischi e senza la nomina del responsabile del servizio di protezione e prevenzione infortuni e del responsabile dei lavoratori per la sicurezza per l’attuazione delle misure antincendio. Per tutte queste violazioni sono state notificate le relative ‘prescrizioni tecniche’ per il ripristino delle condizioni di sicurezza, che non sono state però ottemperate dal datore di lavoro e per le quali sono state contestate oltre 6.000 euro di ammenda. Nell’ambito delle stesse indagini sono state contestate violazioni amministrative per oltre 8 mila euro, oltre alla sospensione dell’attività imprenditoriale per ‘lavoro nero’.

Smaltimento irregolare dei fanghi

A pesare sulle accuse anche il mancato smaltimento dei fanghi dovuti all’attività di autolavaggio, che erano accatastati in sacchi, sul retro dell’azienda. In sostanza, non venivano trattati come rifiuti, tanto che non avevano neppure l’apposito registro.

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