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Home » La Telfer e i mosaici, due brutte ‘sbavature’

La Telfer e i mosaici, due brutte ‘sbavature’

di Marco Torricelli
24 Aprile 2015
in Il corsivo
Tempo di lettura: 2 minuti di lettura
La Telfer

La Telfer

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di Walter Patalocco

Il nuovo soprintendente umbro ai beni culturali ha avuto l’ardire di sottolineare due ‘sbavature’ riguardo a Terni e l’attenzione che essa riserva alla propria cultura industriale di città ‘dinamica’.

Secondo il soprintendente i mosaici della fontana di piazza Tacito andrebbero restaurati e non scalpellati, buttati tra i rifiuti e sostituiti con altri che li riproducono.

E, sempre secondo lui, la passerella Telfer di Papigno andrebbe restaurata e non scaraventata a terra e gettata tra i rottami nei forni dell’acciaieria.

Due suggerimenti considerati come zeppe messe a frenare l’ingranaggio dell’azione spicciativa del Comune il quale vorrebbe risolvere tutto in un battibaleno. Il Comune di Terni… Quello che è tra i più lenti d’Italia nel pagare una fattura (mediamente ci mette più di sette mesi); quel Comune che non riesce a trovare la maniera di tornare ad avere un vero teatro praticabile.

La Telfer costituisce un pericolo si dice, bisogna buttarla giù. Non si può metterla in sicurezza in poco tempo. A Terni, nella città dell’acciaio, nota per avere maestranze che ‘fanno l’occhi a le purge’ non si è in grado di fare in poco tempo un intervento di consolidamento e di restauro di una struttura composta di barre di ferro collegate l’una all’altra con una serie di bulloni.

Sembra che Terni non meriti il rispetto di quello che è stata, delle proprie radici. Eppure è una città antica, che ha subito tali e tante offese per cui il suo passato remoto è stato fortemente compromesso da un’industrializzazione selvaggia che ha sacrificato a pala e piccone una miniera di conoscenze come quelle della necropoli delle acciaierie, dai bombardamenti che hanno cancellato quella parte storica del centro che s’era miracolosamente salvata dagli interventi squassanti del periodo post unitario cui seguì l’avvento dell’industria. Che almeno abbiano la giusta considerazione le testimonianze di quel processo, che hanno visto il sudore e il sangue d’intere generazioni di lavoratori i quali le hanno costruite, usate, conservate.

A Terni ci fu qualcuno capace di dar fuoco ai blocchi stampi di legno, rari esempi di cultura della produzione, esposti a fianco ai vecchi capannoni della Bosco, e lo fece solo perché ci fossero più posti auto nel parcheggio. Per gente così, che sarà mai una passerella di barre di ferro che unisce due pezzi di un vecchio stabilimento? Quanto potrà valere a peso? Poco, è certo. Ma quanto vale, invece, come simbolo?

Quella passerella univa, tanto per dire, due pezzi di una fabbrica alla quale fu sacrificato uno dei luoghi che lasciò a bocca aperta visitatori di tutta Europa; uno dei due pezzi costruito addosso a una villa di campagna che ospitò personaggi importanti della cultura e dell’aristocrazia europea del Sei-Settecento.

Ed è un simbolo del lavoro, della fatica, della manifattura di prodotti che un secolo fa erano considerati innovativi. E oggi è anche una ‘porta’ dalla quale si entra nella Valnerina, uno dei luoghi d’eccellenza del turismo.

Agli occhi di chi nel bullone e nel ferro o l’acciaio vede solo il valore legato al peso in chilogrammi, senza guardare al perché, al percome, a quanto è stato impegnativo costruirlo ha però un difetto fatale: scricchiola.

E allora buttiamola via. E’ o non è un ferrovecchio?

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