Filippo Micheli, politica con la maiuscola

“Attenzione”, avvertì Micheli nel 1995 quando si decise che le acciaierie di Terni sarebbero state cedute ai tedeschi. Il corsivo di Walter Patalocco

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di Walter Patalocco

Il 25 novembre del 1995, vent’anni fa, scomparve Filippo Micheli. Era nato a Montefranco nel 1911.

Micheli è stato parlamentare dal 1948 al 1994, per dieci volte sottosegretario nei governi della Dc o da essa guidati. Era democristiano e perciò per lunghi anni, ai tempi della scontro frontale col Pci, in Umbria e a Terni era “il nemico”. Eppure Micheli, quando c’era da farlo, andava insieme agli operai e agli altri parlamentari, per la maggior parte parlamentari comunisti, a Roma, davanti e dentro la sede del Ministero dell’Industria o delle partecipazioni Statali o, ancora, alla Finsider cui le acciaierie facevano capo, per sostenere la causa della siderurgia ternana – dell’intera economia ternana – e chiedere con fermezza e a gran voce l’intervento dello Stato per risolvere questo o quel problema. Quando c’era bisogno di “fare massa” non si stava a guardare al colore politico. In ballo c’era il futuro di un’intera comunità.

“Attenzione”, avvertì Micheli nel 1995 quando si decise che le acciaierie di Terni sarebbero divenute private e sarebbero state cedute ai tedeschi. Lui quella cessione non la vedeva di buon occhio, in ciò differenziandosi dalle istituzioni umbre, ovviamente a guida di sinistra, le quali ci avevano in qualche modo fatto la bocca. “Non vendiamo tutto il pacchetto azionario, teniamoci almeno la metà – disse – perché poi quando ci saranno questioni “dure”, non servirà a niente fare le spedizioni a Roma; non serviranno le proteste contro il governo”.

Un avvertimento che, vent’anni dopo, mostra tutta la sua validità considerato l’alone di incertezza che avvolge l’AST anche e specialmente dopo la relazione annuale della ThyssenKrupp agli investitori. L’allarme di Micheli aveva una sua validità allora, quando la concezione dei Governi sul ruolo di uno Stato era molti diversa da oggi e per certi versi più rassicurante. Erano i tempi degli Stati dal welfare forte e ben presenti nei meccanismi produttivi. Non solo in riferimento ai servizi assistenziali e sociali, alla sanità, all’istruzione e quant’altro, ma anche in settori strategici come quelli delle grandi produzioni legate all’energia, alla chimica, alla siderurgia…

Non è più quello, nel XXI secolo, il normale sentire dei governi. E’ cosa arcinota. Un governo, oggi, può – sì – inserirsi in una trattativa spinosa, specie se essa si annuncia dura e da alti costi in termini sociali, ma può farlo assumendo il ruolo del “sensale” e spingendosi al massimo a dare consigli, a mettere in atto qualche pressione o a individuare provvedimenti legislativi e quindi misure di ordine generale, valide “erga omnes” e non mirate a specifiche vicende o situazioni.

Ha senso, allora, insistere sulla richiesta di intervento massiccio delle istituzioni pubbliche per tentare di risolvere la crisi di una specifica area? E’ materia dell’oggi o un perpetuarsi di logiche, metodi, percorsi e mentalità che appaiono sempre più retaggio del passato? Per le ricorrenti crisi ternane, negli anni, si è tirata in ballo tutta una serie di provvedimenti su cui si è battagliato a lungo: una volta si chiamavano bacino di crisi, un’altra area deindustrializzata. Una volta ci appellava ai Piani Integrati Mediterranei, un’altra ai programmi di rilancio dell’occupazione o di reindustrializzazione fino a che, finita la fantasia, si arrivò a distinguere gli obiettivi con numeri: 1, oppure 2, o addirittura 5.

Adesso la formula, forse prendendo atto delle complicazioni sopravvenute, è quella di “area di crisi complessa” e si chiede – inutilmente, da quanti anni? – un pacchetto di provvedimenti pubblici mirati. La risposta è già difficile di suo in tempi come quelli che si stanno attraversando, ma quanto meno sarà il caso di affiancare alla richiesta qualche proposta specifica. Perché, come diceva un politico esperto, navigato ma soprattutto capace come Filippo Micheli, si sarà altrimenti costretti a salire sugli autobus e andare a protestare. A Roma, ma da chi?

 

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