Il ‘regno del romanico’ tra sisma e burocrazia

Accanto alle vittime, al patrimonio essenziale di molte famiglie, la perdita di questo patrimonio è ferita anch’essa profonda – Il corsivo di Walter Patalocco

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di Walter Patalocco

Chissà perché, ma manco a farla apposta tutta l’area di maggiore turbolenza del terremoto del 2016, è anche quella che col passare dei secoli è diventata quello che oggi per noi è una miniera, un luogo vivo – e non un deposito museale – della cultura e della storia della gente che l’ha abitata e la abita.

Lì, da quelle rocce, a Castelsantangelo, nasce il fiume Nera, catalizzatore di civiltà antichissime; lì sorgono centri di grande attrazione oggi turistica, ma che nei millenni è stata terra mistica, poi area di sviluppo del ducato longobardo di Spoleto; terra di monaci, di abbazie, di scienza. E terra di pievi, segni di una potenza che nasceva dall’amministrazione dei sacramenti e soprattutto delle indulgenze, e perciò occasione di “guerre fredde” tra i due versanti dell’Appennino.

Pievi, abbazie, monasteri, una miriade di luoghi sacri, ma anche rocche e castelli. Dalle rocche di Ferentillo, a quella di Ponte, su su fino valicare la catena montuosa per raggiungere, sul versante marchigiano eccellenze come la rocca di Camerino e il castello di Arquata. Un confine, quello tra Umbria e Marche ritenuto il “regno del Romanico”.

Un patrimonio così ricco e diffuso che chiese, abbazie, contrafforti, palazzi, torri, fontanili sbucano a sorpresa per il visitatore. Tra i boschi, in cima a un cocuzzolo, o in mezzo ad un grappolo di case dall’aspetto insignificante, al termine di un sentiero.

Accanto alle vittime, al patrimonio essenziale di molte famiglie, la perdita di questo patrimonio è ferita anch’essa profonda. Perché le “radici” sono di importanza vitale per una popolazione.

L’Arcidiocesi di Spoleto, sotto la cui amministrazione cadono molte delle chiese crollate o danneggiate, lamenta pastoie burocratiche che rendono spesso difficile l’intervento preventivo. Come non concordare sul fatto che vadano rimosse?

La basilica di San Benedetto aveva riportato già in agosto danni evidenti alla cupola; la chiesa di Sant’Antonio, vicino Visso, era stata solo transennata, chiusa al culto e basta, in sostanza; la chiesa di San Salvatore, a Campi, sbriciolatasi in diretta televisiva, era da anni puntellata con archi di legno.

Almeno fin dal terremoto del 1997 s’era andati avanti così. Quella chiesa di campagna veniva aperta raramente, giusto per qualche festa comandata. E’ davvero tutta e solo questione di lungaggini burocratiche?

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