di P.C.
Non ci sono buone notizie per l’Umbria nel rapporto Istat 2016. Il ritratto che ne viene fuori raffigura una regione più povera, con meno lavoratori, con più disuguaglianze sociali rispetto agli anni precedenti.
Più vicina al sud che al nord La tendenza generale è sempre la stessa: le regioni più ricche sono quelle del nord mentre i livelli si abbassano scendendo verso il sud. Ebbene, l’Umbria ha dati ormai più vicini alle regioni meridionali che a quelle settentrionali, leggermente peggio delle regioni confinanti e decisamente peggio rispetto al centro-nord.
Rischio povertà Si stima che quasi la metà dei residenti del Sud e delle Isole (46,4%) sia a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24% del Centro e il 17,4% del Nord. I livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Viceversa, i valori più contenuti si riscontrano nella provincia autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) ed Emilia-Romagna (15,4%). In questo settore l’Umbria è fra le regioni con peggioramenti più significativi (+6,6 punti percentuali).
Diseguaglianza sociale Una delle misure principali utilizzate nel contesto europeo per valutare la disuguaglianza tra i redditi degli individui è l’indice di Gini. In Italia esso assume un valore pari a 0,324 (sopra la media europea di 0,310 ma stabile rispetto all’anno precedente). In questa speciale graduatoria l’Italia occupa la sedicesima posizione in Europa. In Italia l’indice di Gini è più elevato nel Sud e nelle Isole (0,334) rispetto al Centro (0,311) e al Nord (0,293). E anche in questo l’Umbria peggiora.
Il commento di Bravi «In passato, l’indice Gini aveva sempre ‘salvato’ l’Umbria – commenta Mario Bravi (Ires Cgil) – mettendo in evidenza che, pur avendo mediamente un salario basso, la regione presentava poche diseguaglianze sociali. Perché c’era un’alta percentuale di occupati: in una famiglia c’era più di uno stipendio e quindi gli effetti della crisi venivano ammortizzati. Arrivati al nono anno di crisi, invece, anche questa caratteristica è venuta meno e contemporaneamente il welfare pubblico si è allentato. Il lavoro, quando c’è, è sempre più povero e precario e quindi si indebolisce la coesione sociale».
«Progressivo impoverimento» «Scontiamo una debolezza della struttura produttiva e una scarsa capacità innovativa. Vero che i dati si riferiscono agli anni scorsi ma purtroppo non vedo elementi di controtendenza per il presente e il futuro. I dati relativi al periodo gennaio-settembre elaborati dell’osservatorio sul precariato dicono che l’Umbria, dopo il boom degli incentivi, ha la perdita più rilevante di contratti a tempo indeterminato a livello nazionale, a fronte dell’esplosione dei voucher, che sono praticamente una forma di lavoro nero legalizzato».
«Barbarie 2.0» «Un’ora di lavoro pagato con un voucher viene classificata dall’Istat come un’ora di lavoro normale. Però quello è un lavoro precario senza garanzie su malattia e maternità e praticamente senza contributi. Una forma di lavoro medievale incartato con modalità moderne e termini inglesi: potremmo definirla una “barbarie 2.0”. E in Umbria, su 200 mila lavoratori, circa 20mila vengono pagati con i voucher: il 10%. Un’enormità. E purtroppo i governi locali incentivano questa tipologia contrattuale anziché scoraggiarla, basti pensare ai family helper (altro termine inglese). Invece si dovrebbero incentivare politiche del lavoro stabile e garantito. Per questo come Cgil vogliamo proporre un referendum per l’abolizione dei voucher e il ripristino dell’articolo 18 per tutti. Anche per le Partite Iva».