di F.T.
Quarant’anni senza mai restare fermo, cambiando approcci, prodotti, sviluppando nuove idee. Come il design – e l’evolversi del tempo – impongono. Il tutto declinato, però, secondo gusti, motivazioni, sensibilità personali che con il mercato, in senso stretto, hanno poco a che fare. Una carriera, quella del designer ternano Maurizio Di Marzio, titolare dal 1984 della Di Marzio Design, che merita di essere raccontata. «Quando ho capito di essere arrivato al quarantesimo anno di attività, mi sono chiesto come fosse possibile. Poi mi sono ricordato che ho 67 anni e allora i conti sono tornati subito…».
Gli inizi, come per tutti, sono nel segno degli studi: «Avevo il pallino della progettazione e, era l’ottobre del 1980, ho preso la decisione di trasferirmi a Milano per frequentare l’Istituto europeo di design. Così ho fatto, per quattro anni, iniziando sul finale anche la mia attività libero professionale. Ricordo di aver realizzato fra le prime cose anche un manifesto per un’importante ricorrenza dei vigili urbani di Terni». Poi la lampadina si accende sul serio e Maurizio Di Marzio centra il primo vero successo in carriera.
«Ho iniziato a progettare sedie per ufficio, prodotte in parte nelle Marche e prototipate a Terni. Era la prima sedia al mondo con sistema di leveraggio che consentiva l’alzata ‘a gas’ da qualsiasi parte venisse toccata. Un bel prodotto, in effetti, che mi ha portato i complimenti della critica di settore, anche internazionale. Si chiamava ‘Linea Ombra’. Poi sono andato avanti per qualche anno: in Italia, ma penso un po’ ovunque, quando ti riesce una cosa, poi ti fanno fare solo quella. Ma nel 1998 ho detto basta, dopo aver ‘sformato’ una quarantina di modelli tutti diversi. Semplicemente non ce la facevo più, la creatività si era esaurita e tutto era diventato piuttosto alienante. Certo, ‘rompere’ con il mercato non è stato semplice. Ma ci sono riuscito».
A quel punto per Maurizio Di Marzio inizia un’altra ‘epoca’ – una delle tre principali della sua carriera di creativo – ovvero la progettazione degli ‘spazi vivibili’ per tutta una serie di mezzi di trasporto importanti, dagli aerei ai treni. Parliamo di poltrone, pareti, sistemi di condizionamento, la ‘carrozzeria’ interna che ciascuno di noi utilizza nel corso della propria vita. «Fra le soddisfazioni – ricorda – c’è senz’altro il mockup in scala reale fatto a Terni, relativo agli interni di un treno disegnato da Pininfarina. Mockup 1:1 che abbiamo realizzato anche per il tram di Birmingham, che arrivò in Inghilterra un po’ danneggiato e dovemmo partire per andarlo a riparare. Ma fu una bella esperienza». E l’obiettivo di diversificare era stato centrato.
Ma anche con i mezzi di trasporto, arriva il ‘punto di rottura’. «Il comparto pubblico – spiega Maurizio Di Marzio – ti espone, forse più di altri, a logiche dove competenza e merito vengono messi in secondo, anche in terzo piano. Lì ho toccato con mano, forse, il circolo vizioso che può innescarsi fra politica e imprenditoria pubblica. E ho cambiato genere».
«Dal 2005 sono entrato nel mercato del plexiglas per componenti di arredo. Sono passato alla produzione di tutta una serie di elementi, appendiabiti, portaombrelli, lampade, sedie, fino alle cucce per cani di alto mercato. Ed è stata una nuova, grande, avventura che mi ha portato tante soddisfazioni, recensioni, nuovi stimoli».
Un capitolo a sé lo merita il rapporto fra progettazione e tecnologie, più e meno nuove, perchè non tutto è stato apprezzato da Maurizio Di Marzio. Per ragioni che è lui stesso a spiegare: «Ho iniziato a lavorare con i computer nel 1991, prima i modelli erano solo ‘a mano’. E con l’informatica sono arrivati i modellatori 3d che, secondo me, hanno semplicemente rovinato il design. Ricordo ancora la lite con il direttore commerciale di una grande azienda di software che, dopo tutta una serie di spiegazioni dettagliate, mi dice: ‘Questo programma sa gestire il progetto dalla A alla Z’. Ma quando io ho un modello in mano, lo tocco, sento i materiali, capisco cosa va e cosa no. Ed è iniziata una discussione accesa ma, dico io, se come umani abbiamo cinque sensi, ci sarà pure un motivo…».
L’ultima riflessione, forse la più significativa, è sul rapporto con il mercato. A volte conflittuale, contraddittorio, altre meno. Ma che deve restare – per chi crea – sempre equilibrato. «Oggi e in prospettiva – non usa mezzi termini il designer ternano – il mercato è un problema. Ci sono persone che corrono dietro al brand fregandosene altamente della qualità del prodotto. Non hanno valori di riferimento e si fidano ciecamente di tutto ciò che viene raccontato dal brand stesso. Spesso vedono i prodotti su riviste ‘fighe’ e questi diventano status symbol, così tutto finisce. Non si sa distinguere un filo di Scozia dalla seta, mancano proprio le basi, e il marchio diventa l’unico elemento discriminante».
L’ultima ‘stoccata’ è per il mercato del vintage: «Trovo ridicolo, ad esempio, chi si mette in casa una poltrona Frau, ad esempio la Chester del 1942, senza sapere nulla del prodotto. Perché ad esempio venivano realizzate con crine di cavallo anziché poliuretano. Se ignori gli elementi storici, non dico tutti ma almeno quelli essenziali, quell’oggetto diventa ‘vecchio’, perde memoria. Invece è la persona che dovrebbe tenerlo in vita conservandone la storia, l’importanza. Comprarlo solo perché ha il marchio Frau vuol dire annichilire un patrimonio. Di questo siamo tutti responsabili, ed è una delle poche realtà di cui sono sicuro».