di L.M.
Cambiano le regole per accedere al tanto ambìto reddito di cittadinanza. Il decreto ‘Aiuti’, approvato lo scorso maggio dal consiglio dei ministri, agli articolo 34 e 34-bis prevede due sostanziali cambiamenti.
Cosa cambia
In primo luogo l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), che si occupa degli interventi a sostegno di chi cerca lavoro, deve rinnovare 1.800 contratti dei cosiddetti navigator, o meglio, quelle figure professionali che si occupano di seguire i percettori del reddito di cittadinanza, aiutandoli a trovare un’occupazione. Il secondo articolo, introdotto in sede di esame del dl ‘Aiuti’ nelle commissioni parlamentari, stabilisce che un datore di lavoro possa fare un’offerta di impiego direttamente al beneficiario del reddito, senza dover necessariamente passare per il Centro per l’impiego. L’offerta avanzata dal datore di lavoro deve essere dichiarata ‘congrua’, o meglio, rispettare una serie di molteplici fattori che prendono in considerazione il livello della paga (il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro, sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Art. 36 Costituzione), nonché i tempi di trasporto necessari per raggiungere il luogo di lavoro.
Cosa accade a chi rifiuta una proposta di lavoro ‘congrua’?
Laddove il beneficiario del reddito di cittadinanza rifiuti una proposta di lavoro dichiarata ‘congrua’, il datore di lavoro può comunicare l’avvenuta rinuncia direttamente al centro per l’impiego. Così facendo la rinuncia andrebbe ad incidere sulla possibilità o meno del soggetto di beneficiare ugualmente del sussidio messo a disposizione dallo Stato. In base a quanto stabilito dalla legge, infatti, il beneficiario perde il reddito di cittadinanza laddove non accetti almeno una tra due proposte di lavoro congrue, o laddove rifiuti un’offerta di lavoro, dopo aver beneficiato del sussidio per almeno 18 mesi. Il ministero del Lavoro dovrà adottare, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto, un ulteriore decreto per definire ‘le modalità di comunicazione e di verifica della mancata accettazione dell’offerta congrua’.
La questione ‘decreti attuativi’
Il decreto attuativo si occupa di ‘attuare’ (come suggerisce il termine) quanto previsto da una legge. La legge di bilancio 2022 conteneva ben 151 decreti attuativi, di soltanto 89 approvati. Tra i restanti 62, due riguardano specificatamente il reddito di cittadinanza. La nuova legge di bilancio, entrata in vigore il 1° gennaio 2022, prevede notevoli modifiche circa l’erogazione del reddito, come ad esempio la riduzione da tre a due del numero di offerte lavorative per perdere il sussidio statale. La legge prevede inoltre un incremento dei controlli circa i percettori del reddito. Il primo decreto attuativo, ancora da approvare, prevede infatti l’approvazione di un piano di verifica dei requisiti patrimoniali dichiarati nella dichiarazione sostitutiva unica. Il secondo decreto attuativo ha l’obiettivo di ridurre il rischio che il sussidio possa andare a persone che non siano residenti in Italia, tenendo conto delle informazioni disponibili negli archivi dei comuni.
Flavio Briatore: «In Italia i giovani non vogliono lavorare a causa del reddito di cittadinanza»
«In Italia i giovani non vogliono lavorare a causa del reddito di cittadinanza» ha affermato a più riprese Flavio Briatore. Il pensiero espresso dall’imprenditore piemontese sembra essere condiviso dallo chef Alessandro Borghese, secondo cui, ai giovani mancherebbe la ‘devozione al lavoro’. Sparare a zero sui giovani additandoli come nullafacenti è un gioco a cui stanno partecipando ormai in troppi, ignorando però le reali motivazioni che spingono un ragazzo a rinunciare ad un posto di lavoro, piuttosto che cercare un’occupazione all’estero. Ad oggi quella che si prospetta in Italia è una paga lontana dall’essere definita dignitosa, ragion per cui molti dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro decidono di rinunciare, in vista di un sussidio previsto dallo Stato, decisamente più consistente rispetto agli stipendi previsti per un lavoratore. Tra i 27 paesi membri dell’UE, soltanto 21 hanno introdotto il salario minimo e l’Italia non ne fa parte.