di F.T.
È entrata in ospedale all’alba del 4 gennaio 2014, dopo la rottura delle acque, in buone condizioni di salute e pronta a dare alla luce il suo piccolo dopo 41 settimane di gestazione. Il dramma si è consumato nel giro di poche ore: lei ha rischiato di morire e il bimbo è morto pochissime ore dopo il cesareo. ‘Colpa’ dello shock anafilattico causato da una fiala di antibiotico somministrato alla donna in infermeria, prima che venisse condotta d’urgenza in sala parto.
Colpo di spugna La vicenda era ovviamente finita all’attenzione dell’autorità giudiziaria, con undici professionisti del nosocomio indagati per omicidio colposo. Dopo l’autopsia sulla salma del neonato e l’analisi della fiala somministrata alla donna – all’origine della reazione allergica con tanto di vomito, difficoltà respiratorie e gravi rischi per la sua stessa vita – il sostituto procuratore Raffaele Pesiri, ad ottobre dello scorso anno, aveva chiesto l’archiviazione delle posizioni di tutti gli indagati.
Battaglia giudiziaria Un’istanza a cui la donna e i suoi familiari si erano opposti strenuamente, attraverso l’avvocato Laura Chiappelli che li rappresenta. Da loro era giunta, forte, la richiesta di andare avanti nelle indagini, per chiarire definitivamente tutto ciò che era accaduto prima del trasferimento in sala parto: dal farmaco-killer (chi e perché lo aveva prescritto/somministrato e perché non sarebbe stato dato ascolto alle lamentele della donna di fronte ai primi sintomi di shock anafilattico), fino ai provvedimenti adottati successivamente, con l’intervento del medico.
«Andare a fondo» La decisione su quello che la procura dovrà fare è arrivata nei primi giorni di maggio. Il gip Maurizio Santoloci ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dal pm ed ha disposto nuovi approfondimenti, basati sul fatto che «in un ospedale nazionale di primo livello e con punte di eccellenza – scrive il giudice – entra una donna in stato di gravidanza e in perfetta salute come il suo bambino nascente. Il dato di fatto oggettivo è che dopo la presa in carico e l’attuazione (o non attuazione) di una serie di comportamenti dei singoli operatori sanitari – spiega il gip – il bambino è morto e la donna è viva, di fatto, per miracolo».
Verità Per il giudice, la procura dovrà quindi svolgere «ulteriori indagini sul caso, sotto ogni profilo, a prescindere dal problema specifico del contenuto della fiala somministrata, ma che vadano a ricostruire con esattezza non quanto risulta dai registri ufficiali (che i familiari della donna ritengono segnati da omissioni e incongruenze, ndR), ma quanto è accaduto realmente e concretamente in quei drammatici momenti».