di Andrea Giuli
ex vicesindaco di Terni, giornalista e scrittore
Pensare in alto, costruire dal basso, agire nel mezzo. Tenterò di spiegare tra alcune righe il senso di questa formuletta che non ha nulla di magico, né di risolutivo, ma vuole essere solo uno spunto di riflessione per gli amici e i nemici di destra, sinistra, centro. Senza soverchie pretese, senza particolari illusioni.
La democrazia di stampo liberale (per la verità non se ne conoscono di altro tipo, realizzate in età moderna sul nostro pianeta) e il meccanismo della rappresentatività che ne è alla base sono in crisi. Profonda. La malattia è nota e viene da abbastanza lontano. Peccato che a questo punto la malattia si sia trasformata in una patologia grave e stabile. Anzi, la sola cosa che di politicamente stabile resta nel nostro tempo attuale è proprio il morbo purulento che affligge il rapporto di fiducia tra popolo e classi dirigenti, tra cittadino e suo delegato nelle ‘stanze dei bottoni’, la sintonia tra corpo elettorale e sistema dei partiti è a brandelli, quasi al suo punto più basso.
Il risultato più immediato è sotto gli occhi di tutti, la sua manifestazione più eclatante è il progressivo allontanamento del singolo individuo dalla partecipazione attiva alla ‘cosa pubblica’ che si tramuta in una franosa astensione dall’esercizio del voto. Non è tanto la diserzione in massa dalle urne a destare seria preoccupazione poiché nelle cosiddette democrazie mature (ma l’Italia lo è?) un certo tasso di astensionismo è fisiologico, quanto il senso di autentico ribrezzo (per non dire rabbia) che il corpaccione del popolo nutre per il ‘potente’, per il personale politico. Bene, cioè male. Amici, compagni, che si fa dunque? Come si può invertire una tendenza desolante ed angosciosa, incistata su un menefreghismo assoluto e su un malanimo crescente?
Non possiamo ancora oggi immaginare una democrazia liberale senza una cornice di partiti e movimenti politici organizzati che la incarnino. Eppure, questo sistema dei partiti che già mezzo secolo fa Marco Pannella denunciava come ‘partitocrazia’ appare sulla strada dell’implosione, un corpo – ci si perdoni la crudezza metaforica – in metastasi terminale. Questione di (poco) tempo probabilmente. La cosa che lascia massimamente perplessi è che non si ravvede terapia efficace per combattere la malattia, le classi dirigenti dei partiti sembrano infischiarsene o, peggio ancora, incapaci, insensibili, orbe di fronte a tale disfacimento.
Come se la faccenda non le riguardasse, nonostante i plurimi sintomi. E allora, in attesa misterica che il sistema dei partiti ritrovi il bandolo della matassa per non finire smaccatamente in cenere, bisogna darsi da fare. Supplire a questa insufficienza vertiginosa della credibilità dei partiti. La politica è scienza a suo modo perfetta, oltre che arte dell’impossibile, per cui alla fin fine le soluzioni non si moltiplicano e non si inventano all’infinito. Neppure sul livello territoriale che poi è il fulcro di questo piccolo ragionamento senza pretese rivelatrici.
Se i partiti si stanno ‘suicidando’ toccherà dunque alla celeberrima società civile prendersi carico delle sfide nell’immediato futuro. In poche parole, non restano che le élite, i presuntivamente migliori, i tecnici che tecnici mai totalmente sono. Sembrerebbe riproporsi il logoro dualismo tra élite e popolo, tra tecnici e politici. Ma in realtà, nella situazione data, non è così. Non del tutto. Trattasi piuttosto di urgente necessità, di traghettamento periglioso dalla melma attuale a qualcosa di leggermente più potabile. In effetti, nel tempo presente in cui tutti gli schemi sono saltati, occorrerà vestire i panni del sarto fantasioso e concreto nello stesso tempo, tentare di riannodare i fili di un tessuto malamente stracciato.
Nella marmellata generale magari un contraccolpo positivo potrebbe anche verificarsi e facilitare quella ri-saldatura tra popolo e élite, professionisti, intellettuali, borghesi (esistono ancora?) ceti popolari, perfino coloro che navigano ai margini, necessaria per riavvicinare la politica all’oggetto stesso della sua esistenza: la società. Più esattamente: una società dinamica e aperta, armonica nelle contraddizioni inevitabili, con un minimo comune denominatore – ripeto, minimo – in termini di valori e di obiettivi. Una comunità larga che sia inclusiva senza ideologismi e trite parole d’ordine, tollerante, agile, solidale al netto di pelose rivendicazioni. Dove i diritti possano essere diffusi e mai scissi dai doveri. Dove il talento individuale debba essere incentivato e aprirsi all’alterità in modo fruttuoso. Dove il respiro della tradizione si innervi nella modernità, l’opportunità del conservare si coniughi al bisogno di innovare.
Insomma, dove l’equilibrio e la mediazione rappresentino la causa e l’effetto, il punto di caduta di una diversità che non può che essere ricchezza. Dove i cosiddetti ‘ultimi’ imparino dai ‘primi’ e viceversa. Dove i corpi intermedi tornino ad essere protagonisti ma senza zavorre, le articolazioni dello Stato abbandonino nefasti protagonismi e il ruolo dell’informazione si liberi da una eccessiva dose di semplificazione e da un certo venticello del rancore. Dove la tecnologia avanzata riconosca sempre la prerogativa dell’umano.
Ecco allora che le realtà locali probabilmente si prestano ad essere ancora una volta laboratorio alchemico, officina di formule per salvare il salvabile. Nell’era del post-post moderno non c’è più niente da inventare, semmai da riproporre, ma una ricetta per uscire dalle secche si impone. Provo sinteticamente e a sprezzo del pericolo a declinare l’abracadabra dell’inizio: occorre a questo punto della vertigine declinante una aristocrazia del pensiero, ovvero pensare, immaginare, elaborare con lo sguardo rivolto in avanti e in alto verso il senso del dovere, del sacrificio, verso un’etica della fantasia che unisca il sogno e il bisogno, mettendo in secondo piano ambizioni personali, dinamiche di bassa cucina. Al bando cioè faide da pollaio, facili consensi, linguaggio da trivio e logiche clientelari di poco momento.
Costruire dal basso, cioè coinvolgere quanto più popolo possibile in momenti di partecipazione, conoscenza e condivisione organizzati, senza abdicare al ruolo di decisori e di portatori di responsabilità da parte di coloro che si assumono per un certo tempo l’onere e l’onore di ricostruire. L’asticella in alto si muove se l’azione è popolare. Il che sia inteso nella accezione più larga: il popolo siamo tutti noi, diversi ma necessariamente unitari.
Agire nel mezzo, laddove il famoso ‘centro’ politico sia niente di più che una suggestione per indicare un metodo, un approccio, una visione di cui appena sopra si è discorso per grandi linee. Parafrasando qualcuno si potrebbe dire che l’estremismo è la malattia infantile di una società. La ricerca di una felicità e di un benessere quanto più diffusi sono invece obiettivi che devono tornare alla nostra portata. Nessun programma elettorale, dunque. Nessun manifesto e nessun ‘bugiardino’ per una utopistica palingenesi. Non abbiamo bisogno di rivoluzioni, se non di quelle gentili, eretiche, empatiche, disciplinate, graduali.