«Errori e opportunità: la pandemia insegna»

Parla il professor Ottavio Alfieri, fra i più importanti cardiochirurghi del mondo. «Virus riconosciuto tardi e pochi tamponi all’origine del disastro lombardo. Nessuno da solo ce la può fare. Collaborare per un nuovo futuro»

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di Fabio Toni

«Come nelle grandi tragedie, in tempo di coronavirus sono emersi gli aspetti migliori e peggiori dell’umanità. Questa grave crisi porta con sé opportunità che dovremo saper cogliere. Partendo da una consapevolezza: che la vita, per diverso tempo, cambierà in ogni suo aspetto».

A parlare è il professor Ottavio Alfieri, una delle personalità mediche più autorevoli della cardiochirurgia mondiale. UmbriaOn lo ha intervistato per poter divulgare il suo punto di vista, a dir poco qualificato, anche in ragione del fatto che la vita del luminare – professionale e privata – è divisa fra Milano (dove è cardiochirurgo senior ed è stato titolare della cattedra di specialità all’università ‘Vita-Salute San Raffaele’) e Bergamo (dove vive). In pratica l’epicentro della pandemia italiana da coronavirus.

Professor Alfieri, in questi due mesi in cui l’epidemia da Covid-19 è venuta alla luce nel nostro paese, ha avuto anche lei l’impressione che, in ogni ambito, anche medico, sia stato detto un po’ tutto ed il contrario di tutto?

«Sicuramente non è facile evitare di dire banalità in questa fase, perchè di Covid-19 se ne parla 24 ore al giorno, su ogni media e ad ogni livello. È una grande tragedia che lascerà degli impatti inevitabili di carattere sanitario, economico e sociale. Sì, credo che in questo lasso di tempo si sia visto di tutto. Ci sono stati degli aspetti umani molto negativi, come alcuni scontri fra nord e sud dell’Italia, sinistra contro destra, liti nella maggioranza di governo ed anche nell’opposizione. Uno spettacolo molto brutto spesso trasceso nello sciacallaggio ideologico e politico. Accanto a ciò, però, abbiamo potuto toccare con mano molti aspetti positivi, a partire dalla generosità e dall’abnegazione della tantissima gente che non si è mai risparmiata, come gli operatori sanitari. Al futuro, però, è giusto guardare in modo positivo perché questa situazione porta con sé anche grandi spazi e opportunità. La vita dovrà cambiare quasi del tutto, lavoro, scuola, casa, urbanistica, sanità, il modo di svagarsi e la cultura. In questo contesto dovranno dominare concetti che nessuno potrà più permettersi di mettere da parte: giustizia, meritocrazia, responsabilità, competenza. Senza questi valori e senza la collaborazione fra i popoli, non andremo da nessuna parte».

Da settimane, nella sua Lombardia, l’infezione virale sta facendo registrare numeri enormi. In termini di persone positive e purtroppo anche di decessi. Cosa si sente di dire? Era in qualche misura evitabile tutto ciò?

«Dobbiamo fare delle profonde riflessioni. Soprattutto qui dove vivo, a Bergamo, ci sono state delle mancanze molto importanti. Anzitutto c’è stato un riconoscimento molto tardivo dei casi, con il virus che ha potuto circolare liberamente per troppo tempo. Inizialmente le tante polmoniti interstiziali rilevate sui territori, non sono state ricollegate ad alcuna epidemia. Per il Covid-19 si è aperta così un’autostrada in termini di diffusione fra la popolazione. Ripenso, ad esempio, alla trasferta di 40 mila tifosi dell’Atalanta a Milano, stipati i centinaia di pullman e mezzi pubblici, per andare a vedere la partita contro il Valencia. Era il 19 febbraio e lei si immagini che disastro possa essere scaturito in termini di contagi. Tra i fattori che hanno determinato uno scenario così nefasto per la Lombardia ed i territori più colpiti, metto poi l’impossibilità da un lato di eseguire i tamponi e dall’altro di isolare i pazienti. Inizialmente bisognava avere almeno tre sintomi – febbre alta, tosse e dispnea – per poter effettuare il test. Ma per molti, quei sintomi rappresentavano una fase quasi terminale di polmonite avanzata e questo dà una spiegazione della mortalità altissima. Lo screening era riservato ai contagiati con polmonite in atto: a dirla così, oggi, ci si rende conto di cosa sia terribilmente mancato. Un altro aspetto critico è certamente dato dalla mancanza di mezzi di protezione, come le mascherine ma non solo, anche per il personale sanitario. Per un certo periodo è stato un problema enorme e, infatti, troppi colleghi hanno perso la vita. Infine la carenza di posti letto nelle terapie intensive: ci sono stati degli ampliamenti di fortuna, relativamente rapidi, ma che danno la misura dell’emergenza che in alcuni momenti ci ha purtroppo travolti. In sostanza direi che l’incapacità di riconoscere il problema a livello territoriale e le carenze in termini di protezioni, tamponi e isolamenti, hanno comportato questa tragedia enorme».

Ora che si è usciti dalla fase forse più critica della pandemia in Italia, sul piano delle prestazioni sanitarie – anche di carattere chirurgico – non c’è il rischio che tutti gli ‘arretrati’ finiscano per travolgere di nuovo il sistema nazionale, creando un’ulteriore crisi post-Covid?

«In Lombardia si è agito creando degli hub negli ospedali dove era possibile continuare a trattare le patologie urgenti non Covid. Ad esempio la cardiochirurgia del San Raffaele, non diversamente da altre strutture regionali, ha proseguito con gli interventi su pazienti urgenti. Questo ha consentito di gestire abbastanza bene la problematica dei malati urgenti al di fuori della pandemia. Sono rimasti indietro, ovviamente, i cosiddetti pazienti ‘elettivi’, che non necessitano cioè di prestazioni a carattere prioritario. Ora, costantemente, anche queste situazioni verrano affrontate e smaltite: per la loro natura, non mi attendo conseguenze particolari sul piano della mortalità. Si tratta di persone che potevano attendere l’intervento che è stato solo rinviato di qualche mese o settimana».

Lei nel 2018 ha dato vitta alla ‘Alfieri Heart Foundation’, fondazione che si occupa di ricerca, formazione, sviluppo in ambiti medico e cardiochirurgico. Una struttura di respiro internazionale che si è dovuta confrontare, anch’essa, con un’emergenza mondiale. Come avete condotto le vostre attività in questo contesto?

«Nel pieno della pandemia, abbiamo cercato di far sì che la nostra fondazione non venisse meno ai suoi compiti sui frontidell’innovazione, della ricerca e anche della formazione. Abbiamo continuato ad esaminare dispositivi molto innovativi, prodotto lavori di ricerca che sono stati pubblicati da riviste internazionali di primissimo piano. Ma abbiamo fatto anche lezioni via web, formando soprattutto operatori sanitari. Per quella che è la sua parte peculiare, lo scopo della ‘Alfieri Heart Foundation’, direi che abbiamo cercato di guardare avanti nonostante i disagi del periodo. Poi, però, abbiamo fatto molte altre cose più strettamente connesse alla pandemia da Covid-19. In un contesto che necessita sempre più del dialogo fra attori differenti, abbiamo collaborato strettamente con un team di architetti, che comprende anche Massimiliano Fuksas e lo studio Archea di Firenze, per dare il nostro contributo alla costruzione di una visione futura che riguarda tanto le abitazioni quanto il mondo sanitario. Sostanzialmente riteniamo che sempre di più la medicina debba arrivare nelle case dei cittadini, dovranno esserci più medici ‘digitali’, persone in grado di leggere ed interpretare i segnali biometrici che vengono trasmessi tramite applicazioni o braccialetti elettronici: una nuova specialità di cui si è parlato ma che, nei fatti, non esiste ancora. Se ora le diagnosi di polmoniti partono dall’ascolto del torace tramite fonendoscopio, in futuro ciò sarà possibile semplicemente poggiando il proprio telefonino al torace o interpretando i segnali dati da un’applicazione. È stato per noi un piacere, come fondazione, poter contribuire a tale progetto che rappresenta il futuro, anche della medicina. Accanto a ciò, circa le attività condotte durante la crisi sanitaria, una grande importanza l’hanno avuta le reti internazionali su cui la ‘Alfieri Heart Foundation’ può contare. Ad esempio per far giungere materiali e dispositivi di protezione difficilmente reperibili in Italia e dando così una mano ad un contesto sanitario, quello lombardo, sottoposto ad un’enorme pressione. Ciò significa che grazie alla fondazione, il mondo si è dimostrato abbastanza piccolo e che le relazioni, in questo momento, contano forse più di ogni altra cosa. Ciascuno di noi dipende dagli altri più di quanto si pensi ed ora, con la scarsità di risorse locali con cui ci troviamo a combattere, ce ne siamo conto ancora di più. In passato, solo per fare un esempio, avevo avuto un allievo che ora lavora a Wuhan e che, superata la crisi sanitaria della città cinese, si è adoperato di concerto con un’associazione di studenti cinesi in Italia, per far giungere qui materiale utile al contenimento della pandemia».

Ora lo sguardo di tutti è rivolto alla cosidetta ‘fase due’: come va affrontata e quali rischi comporta? E soprattutto, l’individuazione del tanto atteso vaccino può ripristinare fino in fondo la vita, come la conoscevamo prima del Covid-19?

«Credo che nella ‘fase due’ siano fondamentali, come e più di prima, i tamponi. Sono l’unico modo per sapere se una persona è contagiante o meno. Ora ad esempio ci stiamo impegnando per far giungere in Italia, in particolare in Lombardia, dei macchinari che sono in grado di analizzare test a velocità molto sostenuta. A differenza dei tamponi, i test sierologici ci dicono sostanzialmente chi è immune, ma non individuano coloro che possono trasmettere l’infezione virale. Anche per questo i tamponi saranno decisivi nei prossimi sviluppi dell’emergenza sanitaria in Italia, così come in tutto il mondo. Essere attrezzati è la cosa più importante. Sul ‘ritorno alla vita’, credo che dobbiamo metterci in testa che anche le modalità lavorative dovranno essere impostate su basi radicalmente diverse dal passato. Distanze, non toccarsi il viso, lavarsi frequentemente le mani, dispositivi che proteggano sé e gli altri: tutte condotte che dovranno durare almeno fino a quando il vaccino giusto non sarà disponibile».

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