Covid: «L’incubo è finito. E mi ha insegnato tanto»

Terni – La toccante lettera di Francesca Carcascio, avvocato di Amelia e colpita – al pari dei suoi genitori – dal virus: «Ricevuto tanto affetto. Ammalarsi non è una vergogna»

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di Francesca Carcascio
Avvocato del foro di Terni

Ecco, oggi è una di quelle date da ricordare sul calendario. Oggi è il 3 dicembre di questo 2020. Anno horribilis. E mi sembra il primo giorno di una nuova vita. E quasi ho paura, mi vergogno, di essere felice perché per me e per la mia famiglia questo significa la fine di un incubo. Sì perché il Covid è questo. Non è solo un virus, la malattia, ma è un incubo, una devastazione, uno sconvolgimento, del corpo, della mente e dell’anima.

Francesca Carcascio

Fine di un incubo. Oggi, dopo 34 giorni, non solo finalmente sto bene ed il mio tampone negativo, ma mio padre finalmente, dopo 15 giorni, esce dall’ospedale: sulle sue gambe, respira da solo e può dire di avercela fatta dopo quella maledetta notte con l’ossigeno che non bastava, con la saturazione che scendeva a 70 con l’apparecchio che suonava, con le telefonate disperate al 118, con quelle parole pronunciate: ‘Non ce la faccio più’. Ed io posso finalmente uscire da casa per andarlo a prendere in ospedale e portarlo a casa, lo aspetta mia madre, anch’essa finalmente guarita e diventata negativa.

Mi sento in colpa per essere felice di tornare a vivere proprio oggi, giorno in cui piangiamo il nostro collega Massimo Proietti che non ce l’ha fatta. Già prima mi sentivo in colpa per averlo portato io a casa questo maledetto virus e per aver contagiato i miei genitori. La cosa che non doveva accadere. È successa.

Ma desidero con tutto il cuore scrivere questo post innanzitutto per ringraziare tutti quelli che in questi giorni sono stati vicini a me ed alla mia famiglia. Non posso fare l’elenco, sono tanti, tantissimi: le mie amiche, le mie colleghe di studio, i miei amici di una vita, tanti colleghi che mi hanno telefonato tutti i giorni per sapere come stavo, tutti i colleghi del direttivo della Camera Penale, il presidente del Coa di Terni, il mio dottore, il mio sindaco Laura Pernazza, il gruppo della Fraternità con cui ho condiviso il virus e che hanno pregato tutti i giorni per me e per mio papà, le maestre di Giulia che hanno dapprima intuito, poi capito tutti gli eventi, mio fratello, mia cugina. Tutti a loro modo ci sono stati vicini, per la spesa, le medicine o anche solo per una parola di conforto.

Ma il ringraziamento più grande va ad un papà meraviglioso e straordinario, Alessandro, che da solo è stato vicino a mia figlia per questi lunghissimi giorni, supportandola e consolandola, non facendole mancare mai l’affetto della mamma, che pure vedeva tutti i giorni sullo schermo del computer. Facendo da mamma, da papà, da maestra, da babysitter, da sorella maggiore. Io ho sempre saputo che era un papà straordinario ma me lo ha dimostrato in questa occasione.

Un grande ringraziamento a mia figlia che ha capito da subito la gravità della situazione e non ha chiesto nulla, non ha detto nulla, ma poi man mano che passavano i giorni mi guardava con quegli occhioni immensi e mi faceva piangere di tenerezza e di nostalgia. Mamma quando guarisci? Mamma quando torni? Mamma ti amo da morire! Mamma mi manchi! E mi faceva vedere di quanto era diventata brava a lavarsi da sola, vestirsi da sola, dormire da sola, noi che dormivamo sempre abbracciate nel lettone.

Perché non mi hai detto che eri positiva? Mi sono sentita ripetere questa frase, spesso, in questi giorni. Ma voi pensate che quando uno si ammala, e sta male, è isolato, ha voglia di sbandierare ai quattro venti le condizioni in cui si trova? Io sono uscita dallo studio venerdì 30 ottobre, tardi come sempre, sono tornata a casa e ho cenato da sola, come sempre, mentre gli altri dormivano. E poi quel mal di stomaco, quella sensazione di freddo, anche se quei giorni era caldo. E poi la febbre, la decisione di isolarmi a casa dei miei genitori, lontano da Ale e Giulia, perché il mio dottore già aveva capito che poteva essere la bestia.

E poi tutta la burocrazia, i ritardi, il mancato tracciamento, la app Immuni mai sbloccata, mia figlia – è contatto stretto, non lo è, può andare a scuola, non ci può andare – ed un tarlo fisso: ma io ci sono stata attenta, ho disinfettato tutto, ho sempre indossato la mascherina, non sono andata da nessuna parte, a parte il lavoro, non sono risultata lo stretto contatto di nessuno, eppure dove me lo sono preso?.

E passano i giorni, i sintomi aumentano, arrivano dolori insopportabili, scosse elettriche che mi prendono la parte posteriore del corpo, dalla testa alle spalle, che mi impediscono ogni movimento. E io sto chiusa in camera da sola, letto, scrivania, computer e per fortuna un balcone dove passeggiare per prendere una boccata di aria. E poi arriva la perdita dell’olfatto e del gusto: ti lavi e non senti il profumo del sapone, non senti l’odore del disinfettante, il cibo non ti passa perché sembra di masticare la carta.

E poi la tosse, quella maledetta tosse che non passa, e la febbre che tutti i giorni arriva, puntuale di pomeriggio, e la sera è un incubo. E allora inizi la cura, antibiotico, antifiammatorio, ti misuri la saturazione dieci volti al giorno, ed ogni giorno pensi: ‘Mio Dio ti prego, non mi far peggiorare’. E poi succede che mamma sta male, una settimana di febbre e non si alza mai dal letto. Si ammala papà, febbre, febbre che sale, passano i giorni e non va via. Fino a quella maledetta notte con la saturazione a 70.

In mezzo ci sono 34 giorni di non vita. Di esistenza sospesa. In cui pensi che non è giusto che tu ti debba anche sentire in colpa perché hai un virus. Perché hai mandato tua figlia a scuola, perché ti hanno detto che ce la potevi mandare, perché poi è dovuta stare in isolamento, per la quarantena, ma solo dopo che tu sei diventata un caso positivo. E questo è avvenuto 10 giorni dopo rispetto all’isolamento. Ma ha fatto il tampone ed era negativa e così è potuta rientrare.

Già perché i malati di coronavirus vengono additati sui social, ma non solo, come untori da un’isteria collettiva che non conosce pietà né ragione. ‘Perché non me lo hai detto?’. Dirti cosa, se non lo sapevo nemmeno io che ero positiva, da quando ero positiva, chi mi ha contagiato. Non è una vergogna avere il Covid, è vergognoso infangare, è vergognoso inventare, è vergognoso non aiutare chi è in quarantena, è vergognoso sparlare del contagiato con tutti come forma di inciucio. È vergognoso pensare di essere immuni, è vergognoso calunniare sui bambini contagiati, ma avere il Covid non è una vergogna.

Io l’ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa. Ho trovato comprensione, tanta, ma ho sperimentato anche l’indifferenza, l’egoismo, la superficialità e in tutto questo tempo ho avuto modo di riflettere sulle priorità della vita, proprio come era successo durante il lockdown. Sull’esigenza di cambiare la rotta dell’esistenza, come aveva detto Papa Francesco alla piazza deserta la fine di marzo.

E allora mi sono detta: possibile proprio a te che dai sempre l’anima per tutto e per tutti, che non dici mai di ‘no’ a nessuno, che ti impegni nel tuo lavoro e in tutti gli altri ambiti in cui ricopri incarichi a vario titolo, devi sperimentare questo sentimento, di frustrazione, di vergogna, di indifferenza, per dovere stare a casa isolato e malato? Il messaggio più ricorrente dei clienti, ma non solo, è stato:’ Allora quando me lo dai l’appuntamento? Ma dai, dopo un mese ancora non sei tornata allo studio? Allora la pratica quando me la segui?’. Mai che ti chiedessero ‘come stai’, ‘sei guarita’. Ma passerà anche questa, ci sarà il tempo di affrontare anche questi aspetti.

Non sono sparita, non ho abbandonato i clienti, il marito e la figlia. Mi sono semplicemente ammalata. Come un altro milione e più di persone. Eppure dietro a quei numeri, dei malati, dei morti, ci sono persone, storie, facce, esistenze, anime. Ho scritto questo post per rivolgermi ai negazionisti, a quelli che ‘il virus non esiste’, ‘è poco più di un’influenza’, ‘a me non mi prende, la mascherina non la porto’. Io avevo il terrore di prendermi il virus, ero fissata sempre con il disinfettante, eppure è successo, me lo sono preso. E me lo sono preso lavorando, andando in tribunale, partecipando alle udienze, andando in carcere, ricevendo i clienti, perché il nostro lavoro non si può fermare. Ma il virus esiste e se ti prende, ti sconvolge, ti devasta fisicamente e psicologicamente.

Mio padre è stato amorevolmente curato da professionisti in gamba e competenti, nonostante quel giorno fossero finiti i posti letto in tutta l’Umbria, ed è stato ricoverato al pronto soccorso e lasciato due giorni vestito su una barella, e poi ha trovato posto in una stanza senza finestre, senza armadi, con un letto e con il dispensatore di ossigeno. Sono loro gli angeli che curano incessantemente malati su malati e fanno l’impossibile per evitare che il virus l’abbia vinta. Ma ora è tutto finito, domani torno a vivere, e ci torno carica anche per tutte le persone che non ce l’hanno fatta. Massimo in primis. Per il mio compleanno, a gennaio, ho ricevuto dalla mia amicha del cuore un regalo speciale, un bracciale, con un quadrifoglio con su scritto: ‘Da oggi il meglio deve ancora venire’. Ebbene quel giorno è arrivato.

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