«La sanità pubblica torni al centro della vita dei cittadini. Non come adesso»

Lettera di un lettore ternano che dice la sua e racconta un’esperienza personale: «Mia madre ha atteso 16 mesi per un’ecografia addominale»

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Lettera firmata

Indubbiamente viviamo in tempi in cui ci si lascia credere che il risparmio, ovvero la salvaguardia dei conti pubblici, debba avvenire sempre e comunque a spese dei cittadini. Inutile confidare che ciò non sia o sperare in qualcosa di diverso. Quest’evidenza empirica possiede oramai un’età che ha fatto storia. Dagli anni ’90 del XX secolo gli scialacquamenti della politica, propri di ogni epoca, assommatisi decennio dopo decennio, hanno portato a un conto di spesa miliardario prima (in lire) e milionario poi (in euro) che oggigiorno strozza più che mai la comunità dei semplici, ossia degli onesti. In pensione sempre più tardi con la salute sempre più malandata (tranquilli, la rivoluzione non è roba da italiani). Il contribuente paga imposte, tasse, contributi e balzelli vari e riceve in cambio, al massimo, un rinvio a data da destinarsi. Sempreché la vita non ‘scada’ prima. Vale per tutto, ma in special modo per la sanità (analisi, diagnosi, cure mediche, ricoveri, interventi).

Prenotai un’ecografia addominale per mia madre, all’inizio di febbraio 2022, come valutazione diagnostica preventiva di un intervento cui avrebbe dovuto sottoporsi e, fortunata lei, giusto stamani, in un centro privato convenzionato con la Usl Umbria 2, ella ha avuto finalmente modo di sottoporvisi. Giusto sedici mesi (diconsi: ’16 mesi’) dopo aver fissato l’appuntamento e, ovviamente, dopo aver effettuato l’intervento e un numero imprecisato di costose visite presso studi medici privati. Che dire? E’ follia. Non conto di smuovere la politica né i burocrati del settore, ma non posso esimermi dal denunciare, io tra tanti, un caso esemplificativo di quanto non sia eticamente accettabile. Le persone devono essere trattate come tali e le strutture sanitarie pubbliche e con esse i propri impagabili dipendenti, fattive e fin troppo sfruttate propaggini dell’operatività sul campo, devono essere messe in condizione di lavorare. Va ridato un senso a tutto il denaro versato negli anni alle voci ‘assistenza e previdenza’.

Se la mia famiglia non avesse avuto modo di sborsare soldi ‘aggiuntivi’ e magari, se il problema clinico di mia madre fosse stato più grave di quanto rivelatosi, probabilmente, ella avrebbe finito per esser parte della sciagurata letteratura in materia di ‘italica malasanità’, impilata in tomi, descritta in capitoli e raccontata in paragrafi umani, innumerevoli, spesso assurdi e comunque dal grado di tristezza crescente. E non mi si venga a dire che la causa del ritardo stia soltanto nella pandemia e del conseguente allungamento delle liste. Personalmente, non credo che la soluzione ai temi della sanità pubblica, tanto nazionale quanto locale, possa essere quella che s’imperni sulle promesse e sulle velleità di un ‘cavaliere bianco’, affatto salvifico ma certamente interessato.

Se guardo alla mia città, penso (dunque sono) che prima ancora di perorare la causa di un certo signor qualcuno e dei suoi letti in clinica, in una scialba disfida di Barletta tra Terni e Perugia degna di Totò, sarebbe opportuno, financo doveroso, che si ridesse fiato alle strutture pubbliche, che a mio avviso, no, non possono più essere considerate ‘aziende’ (scelta politica fallimentare ormai assodata, di una classe politica derelitta) ma enti, organismi di tutela, che pur basati sul criterio di economicità, non soltanto su di esso debbano spinti a funzionare. Nel nostro Paese è sempre andato di moda lo scambio ‘pubblicizzare i costi e privatizzare i guadagni’ e, ahimè, dubito fortemente che vi sia modo di cambiare le cose. Anche perché, altra verità inconfutabile, per chiunque riceva in dono le redini del potere, pur temporanee, vale la cooptazione nel ‘club delle vanità e del così fan tutti’, dove le chiacchiere volano e la concretezza si rende latitante. Al cittadino inquieto che non si rassegni al sofferto stato delle cose, null’altro che l’arduo eppure eroico compito di alzare la voce, gridando fiero ai quattro venti: ‘il Re è nudo’.

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