«Speriamo proprio che nulla sia come prima»

La riflessione di Niccolò Rinaldi, già europarlamentare e alto funzionario del parlamento europeo: «Occasione unica per stroncare i nostri sette ‘vizi capitali’. Solo dopo saremo credibili»

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di Niccolò Rinaldi
Alto funzionario del Parlamento Europeo – Capo dell’Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda

Cosa si gioca l’Italia al tavolo europeo? Dall’Europa vi sono alcune cose che dobbiamo pretendere, come un coordinamento tanto nella risposta alle emergenze pandemiche, che fin qui è stato in larga parte assente, quanto nel calendario e nelle modalità della ripresa. Dobbiamo anche pretendere quel sostegno finanziario che per l’Italia è letteralmente vitale. Ma molto dobbiamo pretendere da noi stessi: la crisi pandemica mette gli italiani di fronte alle loro responsabilità e alla necessità, antica e sempre disattesa ma non più rinviabile, di ristrutturare una spesa pubblica spesso dissennata e di cominciare a sanare le immense sacche di risorse sprecate a causa di sette vizi capitali su cui si sofferma la parte finale di questo documento che si propone di rifiutare ipocrisia, piagnisteo nazionalistico, europeismo di bandiera, e cercare di guardare le cose come sono.

Niccolò Rinaldi

L’accordo che è stato raggiunto il 9 aprile dall’Eurogruppo è tanto buono, o tanto cattivo, che nemmeno chi lo ha contrattato riesce a capire se per lui è buono o cattivo. È un compromesso. Forse, come lo ha definito Davide Giacalone, miracoloso come un cammello che passa per la cruna dell’ago, ma un cammello striminzito. E come nei migliori compromessi, l’ordine delle stesse parole ne cambia il significato: a Roma o all’Aia possono definire la stessa cosa vantando di aver ottenuto ‘un MES senza condizioni, ma limitato alla spesa sanitaria’, oppure ‘un MES limitato alla spesa sanitaria, ma senza condizioni’; idem per i bond, discussi ma non concessi, o non concessi ma sul tavolo.

EMERGENZA CORONAVIRUS – UMBRIAON

Non sono sofismi: è la stagione dell’Europa, ragionevole ma senza slanci, senza slanci ma ragionevole. Si vedrà dove penderà la bilancia, per ora siamo solo alla tappa numero uno di un percorso che ci accompagnerà per mesi, magari per anni, punto per punto, scadenza per scadenza, scandito da malumori tedeschi e italiani, inquietudini della maggioranza e dell’opposizione, dei cittadini che si lasciano trascinare da un nazionalismo di ritorno e di coloro che più che contro Bruxelles si ribellano contro Roma.

L’Europa, e l’Italia, si ritrovano comunque a uno spartiacque e il ‘niente sarà più come prima’ tira fuori tutto ciò che c’era prima, contraddizioni pregresse italiane ed europee, con le quali inesorabilmente dobbiamo fare i conti. Che non sia una maturazione politica e sociale, ma un oscuro virus orientale a scuotere le fondamenta ideali degli europei e la loro capacità di difendere i propri interessi, dei pipistrelli e non la saggezza di Altiero Spinelli, è uno di quei fatti straordinari che nessun centro studi aveva previsto. La scossa è così forte che in realtà dobbiamo augurarci, come europei e come italiani, che ‘niente sia come prima’.

Che nessun altro fosse davvero preparato a fronteggiare una pandemia, non è una consolazione, per un’Europa che si picca di costituire l’area al mondo di maggiore intelligenza politica e tutela sociale. Terra dove regnano unità di crisi, centri di studi, accademie, politica vibrante, sistemi sanitari pubblici d’avanguardia, l’Europa deve migliorare la sua rete di centri di osservazione strategica, aggiornarne le metodologie di analisi. Il presente ci riserva il Covid, il futuro forse qualcosa di molto diverso, anche di peggio, e Bill Gates ci aveva avvertito, niente, a scrutare con attenzione l’orizzonte, è davvero imprevedibile. Eppure il rischio pandemico non era stato previsto.

A emergenza lanciata, l’Unione Europea avrebbe dovuto prendere in mano le redini della risposta, creando un tavolo di confronto permanente tra le varie autorità sanitarie dei paesi membri e attivando in modo sistematico, e non soltanto occasionale come è accaduto, il Meccanismo di Protezione Civile Europea. RescEU è un sistema operativo che ha portato nel mondo la parte migliore di un’Europa solidare e operativa, ma che nel momento del massimo bisogno non è stato offerto ai suoi cittadini. Mancando la volontà politica, si è privata l’Unione Europea di un coordinamento per disporre personale e materiale nei luoghi e nei tempi giusti, secondo le esigenze e sulla base di una capacità di reazione europea e non nazionale. I cittadini avrebbero avuto anche la percezione di un’Europa solidale e fattiva, al loro fianco con servizi e volti. Niente è perso: in caso di ripresa autunnale della pandemia, si superi la logica occasionale della solidarietà europea, creando strumenti di concertazione sistematica delle politiche sanitarie e innescando il coordinamento della Protezione Civile Europea.

Da quel che vediamo, la frammentazione della risposta si sta replicando nelle modalità della graduale ripresa delle attività. Tuttavia in un mercato comune, in un regime di Schengen, dovrebbe essere la sede europea ad armonizzare e coordinare l’individuazione e i calendari della riapertura dei settori produttivi prioritari, le misure di sicurezze comuni da applicare alla mobilità, i dispositivi e le procedure per individuare i lavoratori che risultino immunizzati, l’applicazione delle migliore pratiche per mettere in sicurezza i lavoratori. Il rischio di riaperture secondo modalità esclusivamente nazionali, può minare non solo il contrasto alla pandemia, ma anche creare una distorsione del mercato interno se non addirittura aspetti di concorrenza sleale.

È indispensabile affrontare in sede europea questi aspetti operativi della gestione pre, durante e post pandemia anche per plasmare un’Europa fattiva e non ridotta alla sola dimensione delle politiche finanziarie, le quali sono comunque destinate a un ruolo protagonista. Soprattutto per l’Italia. Il nostro paese ha e avrà sempre più bisogno, se non disdegnassimo le enfatizzazioni diremmo un ‘disperato’ bisogno di sostegno finanziario. Gli italiani e la stessa classe politica italiana devono essere consapevoli che, piaccia o non piaccia, l’Unione Europea è il solo interlocutore disponibile nell’erogazione di questo sostegno. O preferiamo il FMI? O la Cina, che forse potrebbe supplire all’Europa, prendendosi in cambio, e solo per cominciare, vari gioielli industriali? O l’America dell’attuale amministrazione, arrivata in ritardo e che dovrà far fronte ai suoi problemi sociali?

L’Europa funziona con le sue regole, che l’Italia, MES compreso, ha contribuito a decidere, ma che ora devono essere adattate alle eccezionali circostanze e ispirate a una visione di solidarietà effettiva che sia figlia di una riflessione strategica sulla tenuta del ruolo dell’Europa nel mondo. Gli strumenti discussi sono molteplici: un MES a suo modo ‘in deroga’, l’emissione di bond, finanziamenti BEI, sussidi contro la disoccupazione (Sure, che noi vedremmo bene erogati direttamente dalla Commissione, per dargli un volto europeo), progetti transfrontalieri di investimento pubblico da finanziare con risorse proprie UE anche attraverso una rafforzata tassazione europea su aspetti transfrontalieri, il Fondo ad-hoc per la ripresa. Il dibattito sulla ‘solidarietà’ europea sarà articolato nelle varie proposte e prolungato – siamo soltanto all’inizio.

Tuttavia, questa solidarietà avrà sempre una qualche forma di condizionalità, più o meno ‘leggera’. Escluderla significa cullarsi in un’illusione: qualunque siano gli strumenti che alla fine saranno concordati (perché alla fine un accordo, per quanto inadeguato, ci sarà e già si comincia a vedere), si tratterà sulle condizioni, con qualunque nome esse possano essere mascherate.

La vicenda del MES, per quanto ancora non del tutto definita, è significativa. Divisioni nella maggioranza, pregiudizi quasi ideologici allo strumento disponibile, anche da una buona parte dell’opposizione, potrebbero indurre il governo a rinunciare ai 35 miliardi europei messi a disposizione del paese per finanziare il settore della sanità con interventi che siano direttamente o indirettamente rivolti all’emergenza pandemica. In assenza di condizioni vessatorie, molto si potrebbe fare per rafforzare un settore che ha dimostrato forza e debolezza: colmare il divario rispetto ad altri paesi in quanto a capacità di posti in terapia intensiva, acquisto e immagazzinamento diffuso nel territorio di quel materiale di primo uso di cui l’Italia si è trovata sprovvista (mascherine, ventilatori, disinfettanti, ecc); creare delle indennità di crisi da devolvere al personale che in questi mesi ha rischiato la propria vita nei reparti; aprire presidii sanitari territoriali per incrementare la capacità di gestione degli ospedali; investire nelle residenze per anziani con misure protettive in caso di rischi infettivi; finanziare la ricerca di vaccini, farmaci e dispositivi sanitari (tamponi, rilevatori di presenze contaminanti in spazi chiusi, applicazioni informatiche, ecc.); assunzione di personale medico e paramedico specializzato; e molto altro. Lo stanziamento MES rappresenta dunque un’occasione unica per sanare alcune anomalie del nostro sistema sanitario che se nel complesso ha tenuto, è stato anche risparmiato finora dalla diffusione della pandemia nelle regioni più vulnerabili e nelle quali interventi di sostegno sarebbero ancora più importanti.

Sebbene il sistema Italia si sia sempre trovato a disagio nell’utilizzare bene le risorse europee finalizzate a determinati scopi – che è poi la lezione dello scarso utilizzo dei fondi strutturali, anch’essi vincolati a specifiche finalità di spesa -, la rinuncia allo strumento concordato in queste prime fasi del negoziato, sarebbe un tragico errore, quasi un esercizio di autolesionismo nazionalista. Ciò che è irrinunciabile, è che le condizioni di utilizzo dei vari strumenti di sostegno finanziario siano finalizzate a uno sviluppo inclusivo della società e a una tenuta dei valori europei di coesione, bussola per permettere all’insieme dell’Europa di preservare il suo ruolo protagonista nella comunità internazionale, ruolo che potrebbe essere messo in crisi se tali valori saranno disattesi.

Anziché limitarsi ad invocare, a volte perfino con scarso senso della dignità nazionale, la solidarietà europea, l’Italia deve cominciare a praticare una propria solidarietà interna, che va sotto il nome di ristrutturazione della spesa pubblica. L’ingente volume del debito – pur se in presenza di avanzi primari, pur se garantito dalla struttura produttiva del paese – è tale da non poterci permettere di fare quello che altri paesi possono: ricorrere senza timore ai mercati. Una spesa pubblica in buona parte dissennata, assistenzialista, schiacciata da una burocrazia anacronistica, disposta ad aiutare poco chi produce lavoro, poco propensa a incentivare l’innovazione, la digitalizzazione, le nuove generazioni, la ricerca e l’istruzione, e anche uno stato sociale efficiente e solidale, ha ormai necessità di essere ristrutturata e sburocratizzata, rafforzata da stanziamenti aggiuntivi per far fronte agli effetti della pandemia e per tenere in piedi chi ancora è in misura di produrre ricchezza.

Non sarà a forza di MES e nemmeno bond che l’Italia ce la potrà fare, ma solo se si saprà affrontare responsabilità a cui finora ci si è voluti sottrarre. Questo comporta un compito titanico, ma imprescindibile in sede europea per recuperare credibilità e per rimuovere quelle riserve mentali ben presenti nei nostri alleati, condizione indispensabile laddove ci si sieda per negoziare un aiuto. Si tratta di dare avvio anche a un dibattito nazionale che né destra né sinistra amano: mettere mano, ai ‘sette vizi capitali’ del sistema italiano. Vizi che in Europa hanno spesso il primato:

  • Il costo dell’evasione fiscale, dovuta anche a una selva di procedure e scadenze e un disequilibrio nella distribuzione del carico fiscale. Nell’UE, l’Italia è al primo posto (per evasione complessiva, 90 miliardi l’anno, e per evasione pro-capite: Wall Street Italia, 29 marzo 2019).
  • Il costo della corruzione (stimato in vario modo da meno di 50 a quasi 100 miliardi l’anno, con un indice di percezione che pone l’Italia al 22° posto nell’UE e prima in valori assoluti: Eurostat, 12 febbraio 2020).
  • Il ruolo dell’economia sommersa (circa il 12% del pil: Blastingnews, 15 ottobre 2019).
  • Il ruolo del crimine organizzato nell’economia (circa 100 miliardi di ricavi: Econopoly, Il sole 24 ore, 22 giugno 2018, e un impatto negativo sull’economia che classifica l’Italia al 122° posto su 140 paesi a economia industrializzata: World Economic Forum, Global Competitiveness Report 2018).
  • Una burocrazia che per la sua complessità, lungaggine, e ritardi nella digitalizzazione rappresenta un freno allo sviluppo economico (classificata addirittura al 136° posto sui 140 paesi a economia industrializzati presi in esame: World Economic Forum, Global Competitiveness Report 2018)
  • Il costo di un ordinamento istituzionale non al passo con le esigenze di una competitività sempre più globale: un sistema bicamerale perfetto (unico caso nell’UE e quasi nel mondo: Centro Italiano Studi Elettorali dell’Università Luiss, 22 luglio 2014), un’articolazione di venti regioni, quasi ottomila comuni, autorità di bacino, consorzi di bonifica, e tanto altro.
  • La permanenza di privilegi che paiono quasi retaggi feudali a beneficio di varie ‘caste’: diseguaglianze negli emolumenti combinati del personale politico rispetto agli altri paesi europei, trattamenti pensionistici di alcune categorie di alti funzionari, numero di ‘auto blu’, e ancora… Pur con un impatto finanziario a volte trascurabile, tali privilegi sono odiosi alla maggioranza dei cittadini e costituiscono un freno a una ristrutturazione della spesa pubblica che deve partire dall’alto. In Nuova Zelanda il governo, l’opposizione, i dirigenti pubblici, si sono tagliati gli stipendi del 20% per creare un fondo di sostegno. Non sarebbe un bel segnale anche in Italia, e anche all’Europa a cui chiediamo solidarietà?

Queste anomalie sono ben note in Europa, al punto che certe relazioni della Corte dei Conti o compilazioni dell’ISTAT sembrano a volte lette con maggiore attenzione a Bruxelles che non a Roma o a Milano. Nessun governo ha ancora avviato uno sforzo reale per rimediare ad alcuno di questi sette peccati capitali, che in larga parte si alimentato tra di loro in un intrecciato effetto nefasto. L’emergenza Covid mette a nudo queste profonde contraddizioni del nostro sistema: è impensabile far ripartire il paese senza saldare questi conti. Anche per questo occorre il coraggio tanto invocato in queste settimane: presentarsi in Europa con alcune prime e ormai inderogabili misure di riforma, forse dolorose per alcuni ma di beneficio per la collettività, rafforzerebbe, e non poco, la credibilità della nostra richiesta di solidarietà e la nostra affermazione di voler appartenere alla migliore Europa.

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