Terni, da Saffat ad Ast: tra acciaio e finanza

Le ‘stranezze’ dei percorsi di andata e ritorno nella storia delle acciaierie

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di Walter Patalocco

La mazzata gliela dettero quando con la nazionalizzazione del’energia elettrica tolsero alla ‘Terni’, più che una costola, un pezzo di colonna vertebrale.

Il comparto elettrico era il motore turbo del gruppo, e non solo perché si trattava pur sempre di energia bensì perché quella fetta del business era la più remunerativa. Lì si minarono le fondamenta della ‘Terni Società per l’industria e l’elettricità’, la ‘Terni’ polisettoriale. Un gigante economico e produttivo nato sull’onda di una concezione per qualche verso autarchica.

La Terni produceva ghisa, ferro, acciaio? Bene, ma aveva bisogno di sempre più energia e così sviluppò il comparto elettrico. Servivano le condotte? Ecco la caldareria. Necessari i marroni refrattari? Vai con le cementerie e le fornaci. I passi verso un’espansione tentacolare nella chimica, nelle miniere di lignite che servivano anch’esse ad alimentare centrali elettriche non fu che la conseguenza di un’acquisita mentalità imprenditoriale. Anche perché, poi, quelle condotte, il cemento, l’elettricità e via dicendo non servivano che in minima parte, successivamente, per le esigenze ‘interne’, ma divennero comparti produttivi, altri business, altre fonti di entrate. E la ‘Terni’ diventava un gigante.

Finito tutto questo si continuò con una polisettorialità diversa – si potrebbe dire – più collegata e nello stesso tempo figlia dell’attività di centro siderurgico: non c’erano più imprese figlie o ‘com–parti’, ma ‘re–parti’: profilati, ccf (caldareria e condotte forzate), lamierino magnetico, elettronucleare, fucinatura. Di armi si è parlato solo in periodo bellico eccezion fatta per quella vicenda, nel 1990, del supercannone di Saddam Hussein.

Profilati, ccf, magnetico: parole che evocano battaglie più o meno cruente che videro alla lunga soccombere il sindacato, la città e i reparti stessi chiusi o, come nel caso del magnetico, evaporati e finiti col vento sui cieli dell’Europa del Nord. La fucinatura si salvò: per il rotto della cuffia. Solo perché ci fu l’impegno di qualche manager di Stato (ce n’erano di capaci, seri e onesti) e perché aveva un portafogli ordini rigonfio. La fucinatura diventò una società derivata: Sdf, Società delle Fucine. Avesse avuto bilanci in perdita secca non avrebbe pesato sulla società madre e la si sarebbe potuta chiudere in qualunque momento.

Fu il modello usato per il tubificio, per la società di informatica divenuta Aspasiel, per quella costellazione di derivate che adesso l’Ast inghiotte di nuovo in un unico ‘calderone’ in ciò spinta dalle stesse motivazioni che anni addietro suggerirono il procedimento opposto: dar spazio a meccanismi finanziari per avere la possibilità di incidere sulle cifre da scrivere nel bilancio.

In piccolo siamo alla stessa mazzata data alla Terni polisettoriale che da ‘Terni società ecc. ecc.’, diventò Terni Acciai Speciali (Tas), poi finita nel gigante Ilva da cui fu ‘estratta’ una società nuova, l’Ast venduta nel 1995 alla Krupp.

L’Ast, per le carte, non c’entrava niente con tutto quello che era stata prima la Terni o la Tas. Quest’ultima, che poi era l’evoluzione della Saffat fondata nel 1883 da Breda e Cassian Bon, ha fatto una fine singolare: fu inglobata nel Banco di Santo Spirito e seguendo le sorti di quella banca è ora un pezzettino di Unicredit. Cose che succedono quando a comandare è la finanza.

 

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