Terni, si suicida a due giorni da ricovero in PS Medico condannato a pagare 133 mila euro

La vicenda, accaduta nel 2007, coinvolse una minore: contestato il danno erariale per la condotta di uno psichiatra. Non ci fu la dimissione protetta dal pronto soccorso

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di S.F.

Il suicidio di una minorenne dal 13esimo piano di un palazzo avvenuto nel gennaio 2007 e, due giorni prima, la decisione di dimetterla dopo un ricovero al pronto soccorso del Santa Maria di Terni a causa dell’assunzione di diversi farmaci. C’è questo episodio alla base di una sentenza della Corte dei Conti – sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, Piero Floreani presidente – su un giudizio di responsabilità promosso dalla procura regionale a carico di un professionista sanitario: è stato condannato al pagamento di 133 mila 438 euro a favore della Usl Umbria 2, più rivalutazione monetaria e spese di giudizio. Si tratta di un danno erariale. La vicenda era già passata per il tribunale di Terni e la corte d’appello di Perugia.

Cosa è accaduto: la mancata diagnosi approfondita

La minore era stata ricoverata al pronto soccorso dell’azienda sanitaria ‘Santa Maria’ dopo l’assunzione di alcuni farmaci. Ed è qui che si sviluppa la vicenda: lo psichiatra che l’aveva visitata, «pur riconoscendo lo ‘stato soporoso’ in cui si trovava e rilevando – si legge nella sentenza – che l’atto non aveva avuto una valenza dimostrativa, ometteva di segnalare la necessità di una successiva diagnosi più approfondita o di avviare un percorso di guidato controllo della minore, con ciò agevolando le dimissioni non protette della paziente (alla quale veniva consigliato solo un periodo di osservazione medica)». Quindi fu dimessa senza ulteriori esami e valutazioni psichiatriche. Due giorni dopo il suicidio. «A causa della condotta del convenuto, l’azienda sanitaria è stata costretta ad un notevole esborso economico, deminutio patrimoni che costituisce danno alla finanza pubblica». All’epoca c’era l’Asl 4 provinciale di Terni.

La difesa del professionista. C’è anche la scuola

Diversi i motivi di difesa esposti dai legali – gli avvocati Marco Bonamici e Grisante Diofebi – del professionista in questione. In primis ha eccepito in via preliminare la decadenza dall’azione di responsabilità amministrativa «essendo decorso un lasso temporale superiore al quinquennio decorrente dal momento dell’evento lesivo». Poi si entra nel merito: «Al tempo della visita – ha sostenuto – la paziente minore era in stato soporoso (evenienza che avrebbe impedito ogni valutazione psichiatrica e che avrebbe confermato la correttezza della permanenza in ambiente medico; i medici del reparto, una volta che la paziente avesse ripreso la pienezza delle facoltà intellettive, divenendo così effettivamente valutabile, avrebbero dovuto richiedere una nuova visita e rimettere la paziente alle valutazioni del servizio di igiene mentale per l’infanzia; l’interessato avrebbe dato piena informazione al padre della minore in ordine alla necessità di vigilare costantemente sulla ragazza con l’aiuto dei reparti specializzati». Per questo, dunque, «l’assenza di richiesta di rivalutazione da parte del convenuto non potrebbe essergli imputata quale comportamento omissivo gravemente colposo scaturigine del danno erariale indiretto». In primis perché i medici del reparto «avrebbero dovuto disporre la nuova valutazione psichiatrica della minore prima delle dimissioni protette». C’è altro: «Anche i genitori, in luogo di controllare la figlia e starle vicini, le avrebbero immediatamente fatto riprendere la scuola. Non potrebbe, poi, non considerarsi il comportamento gravemente colposo della scuola, responsabile per i minori affidati, anche per danni da autolesione». In ogni caso, inoltre, «dal punto di vista dell’assenza di nesso eziologico, ha evidenziato che, alla stregua di un giudizio controfattuale, anche ammettendo che il convenuto avesse ordinato una nuova valutazione medica, non è detto che all’esito di quest’ultima sarebbero state necessariamente disposte misure protettive nei confronti della minore (che al tempo non soffriva di disturbi mentali o di disarmonie psicologiche)». L’udienza pubblica c’è stata lo scorso 15 dicembre.

Il giudizio della Corte dei Conti

Per la sezione giurisdizionale per l’Umbria della Corte dei conti l’azione risarcitoria pubblicistica è fondata perché – in sintesi – «dalla documentazione emergono tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa imputata al convenuto». Tutto basato sugli atti prodotti dalla procura regionale. Infatti dalla cartella clinica – viene specificato nella sentenza – emerge che il sanitario in questione, «pur rilevando l’impossibilità di condurre una valutazione psichiatrica della paziente, piuttosto che indicare la necessità di effettuare una nuova rivalutazione della minore, ha negligentemente concluso per la necessità di un breve periodo di osservazione medica». In tal senso c’è anche la consulenza del professor Stefano Ferracuti: per lui la diagnosi medica fu «incompleta, mancando l’ipotesi diagnostica della dimensione psichiatrica della ragazza che, se non poteva essere formulata in regime d’urgenza, doveva essere completata in un secondo momento per verificare inoltre la necessità di somministrare un’adeguata terapia psicofarmacologica o di effettuare un ricovero in ambiente psichiatrico protetto». Secondo il collegio giudicante «il fatto di aver assunto numerosi farmaci rappresenta un’intenzionalità suicidaria» e, inoltre, «le dimissioni protette sono quanto mai opportune in casi di tale tipologia. Lo stato soporoso, infatti, non evita la valutazione psichiatrica, ma fa pensare ad una conseguenza legata all’assunzione dei farmaci, cioè alla gravità clinica secondaria all’assunzione. Tale circostanza induce a collegare l’assunzione di farmaci non ad un atto dimostrativo, ma ad una intenzionalità suicidaria». Anche la corte d’appello di Perugia – sentenza del febbraio 2017 – concluse per la colpa del sanitario.

Si poteva evitare. Il danno ridotto

In conclusione il collegio sottolinea un altro aspetto: «È evidente che, qualora il comportamento del sanitario non fosse stato connotato da tali profili di colpa grave, il suicidio della minore sarebbe stato ragionevolmente evitato, in quanto si sarebbe attivato quel circuito di protezione idoneo a scongiurare la verificazione di eventi di tale genere e tipologia». Per la sezione giurisdizionale della Corte dei conti esiste un «grave comportamento del sanitario consistito in un’attività commissiva ed in un’attività omissiva». La richiesta era di 266 mila euro: «Il danno deve essere ridotto, atteso che, come rileva la sentenza della Corte d’appello, non può escludersi un apporto anche dei sanitari che hanno comunque curato la paziente». Sì, perché quest’ultimi avrebbero potuto «autonomamente richiedere una nuova valutazione psichiatrica della paziente. Elemento che ha rilievo ai fini dell’identificazione della quota di danno imputabile» al convenuto. C’è poi un ulteriore specifica del collegio giudicante completato dai magistrati Rosalba Di Giulio e Pasquale Fava: «Va precisato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, nessuna rilevanza eziologica escludente, né diminuente ai fini della liquidazione del danno, possono avere le condotte dei genitori e della scuola, trattandosi di comportamenti successivi assolutamente irrilevanti e comunque collocati cronologicamente e logicamente in una serie causale di eventi determinata dalle gravi condotte del sanitario». C’è la condanna al pagamento di 133 mila 438 euro alla Usl Umbria 2.

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