61.254 euro, oltre agli interessi: questo il risarcimento stabilito dal tribunale civile di Terni – giudice Dorita Fratini – e che l’azienda ospedaliera ‘Santa Maria’ – possibile l’impugnazione della sentenza in appello – dovrà versare agli eredi, in particolare una nipote, di una donna ternana venuta a mancare nel settembre del 2015 all’età di 79 anni.
La causa era stata intentata dagli avvocati Federica Sabbatucci e Antonella Dello Stritto sulla base di presunti errori in ambito diagnostico e terapeutico, dopo che l’anziana, a seguito di una caduta avvenuta nell’ottobre del 2013 all’ingresso di un centro medico, aveva riportato la frattura del collo del femore sinistro.
La donna era stata ricoverata per circa una settimana all’ospedale ‘Santa Maria’ e, durante quei giorni, la decisione dei medici era stata quella di procedere ad una ‘terapia conservativa’, evitando così l’intervento chirurgico. Una scelta contestata nell’azione legale promossa dalla nipote della signora, alla luce degli sviluppi successivi le dimissioni.
La 79enne, infatti, che prima dell’incidente camminava autonomamente, pur con l’utilizzo di una stampella, a seguito delle determinazioni dei sanitari successive la frattura, aveva trascorso la restante parte della sua esistenza a letto, impossibilitata a stare in piedi. Una condizioni che ne avrebbe poi compromesso le condizioni fisiche ma soprattutto psicologiche, fino al decesso avvenuto poco meno di due anni dopo la caduta.
Il giudice, anche sulla base della Ctu disposta nel corso del procedimento civile, ha rilevato due aspetti centrali. Il primo, che la donna – autonoma e deambulante prima della caduta – poteva e doveva essere operata in un tempo relativamente breve (entro 48 ore) e non c’era alcuna ragione clinica per procedere alla ‘terapia conservativa’ che l’avrebbe poi costretta a letto. Il secondo, il fatto che nella cartella di ricovero fosse indicata una precedente frattura sempre al femore sinistro, quando in realtà la lesione – avvenuta nel 2006 – aveva riguardato il femore destro. Un erorre che, per il tribunale, ha condizionato l’iter diagnostico e terapeutico successivo, influendo nella valutazione di non operabilità.
In sostanza, il successivo allettamento – in ragione dell’invalidità evitabile – avrebbe condizionato per sempre l’esistenza di una donna comunque attiva, presente a sé stessa, autonoma e in grado di camminare. Da qui la sentenza che ha visto l’azienda ospedaliera condannata, oltre a liquidare il risarcimento, anche al pagamento delle spese processuali e della Ctu.