Terni, quel capannone pieno di misteri

Esperimenti poco chiari, mancanza di permessi e poi il fallimento: i tanti dubbi che sono sorti

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di Marco Torricelli

Un’azienda fallita, un istituto di ricerca sulla cui sorte gli interrogativi sono infiniti, un capannone oggi deserto, ma all’interno del quale si sono probabilmente fatti degli esperimenti dei quali nulla si sa – con delle macchine che sono ancora all’interno – e timori su possibili danni ambientali.

Il capannone L’edificio – varrebbe circa un milione e mezzo di euro – sta in via Luigi Casale, a Maratta. Ed è di proprietà della banca Mediocredito Italiano. La Tecnofin, anni fa, aveva infatti stipulato un contratto di leasing, anche in vista della promessa realizzazione di locali da adibire ad uffici. Ovviamente mai visti. Anche perché Tecnofin ha fatto fallimento, trascinando nel baratro anche l’Isrim.

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I finanziamenti Già, perché proprio l’Isrim sarebbe stato coinvolto negli esperimenti che si facevano dentro quella struttura, utilizzando parte dei fondi ricevuti dal ministero per l’università e la ricerca (Miur) proprio per le attività di ricerca dell’istituto. Andando a spulciare nelle carte, però, le fiamme gialle erano incappate in alcune ‘stranezze’ nella gestione dei circa due milioni concessi. La Finanza, per la verità, avrebbe messo in discussione le modalità di utilizzo di una somma inferiore – qualche centinaio di migliaia di euro – ma tanto era bastato perché il ministero avviasse la procedura di recupero delle somme erogate.

La perizia Secondo Lucio Cardaio, il perito incaricato dal tribunale di Terni di fare una valutazione, in occasione del fallimento Tecnofin, tra il 2006 e il 2007 la banca avrebbe aperto due linee di credito per l’azienda, per un totale di quasi 673mila euro – per «ricerca industriale» e «sviluppo precompetitivo»; mentre al momento in cui lo stesso Cardaio ha chiuso il fascicolo, il 13 giugno del 2013, il valore degli impianti poteva essere stimato in 135mila. Un affare.

Gli impianti Perché, spiegava sempre il perito, dentro quel capannone c’era «un impianto per l’essiccazione di materiali vari, quali biomasse vegetali, scarti di lavorazione, sanse, residui di spremiture, fanghi di depurazione, pulp di cartiera. Il prodotto essiccato dovrebbe poi essere conferito al termovalorizzatore».

Documenti mancanti Solo che lì dentro si sarebbe lavorato, più o meno dal 2007 al 2013, in un regime curioso. Uno dei problemi, per esempio, è che quel capannone non avrebbe mai ottenuto il certificato di agibilità né – almeno è quanto si evince da una lettera inviata dal Comune di Terni – quello di ‘prevenzione incendi’. Meno ancora si sa delle possibili emissioni inquinanti, tranne che «i fumi depolverati (al 95%) sono scaricati in atmosfera tramite camino di espulsione di altezza prevista pari a circa 13 metri», scriveva sempre il perito nominato dal tribunale.

Sicurezza La domanda che più di qualcuno si pone – il gruppo ambientalista ‘Terni green’ un paio di mesi fa ha inviato una lettera al sindaco, all’Arpa e pure alla procura della repubblica – è relativo a quella che viene definita «l’attività svolta (e forse ancora) da una nota azienda ternana già proprietaria dell’inceneritore Printer». Ma ‘Terni green’ chiede anche di chiarire «se questa azienda ha a che fare con la proprietà dell’immobile o persone ad essa riconducibili». Pare che nessuno abbia risposto.

Macchine parcheggiate Quei macchinari industriali, però, sono ancora all’interno del capannone: tipo quello che sembra essere un pirolizzatore (la pirolisi dei rifiuti, utilizzando temperature comprese tra 400 e 800 gradi, converte il materiale dallo stato solido in prodotti liquidi); o quello che potrebbe essere un essiccatore, composto da una parte rotante e dal forno che sviluppa calore; ma anche altre apparecchiatore varie.

I bidoni In giro, però, ci sono anche più di una ventina di bidoni contenenti sostanze chimiche, presumibilmente tossiche e nocive, alcuni dei quali presentano delle lacerazioni dalle quali i liquidi possono uscire. I macchinari e tutto l’ambaradan sono stati posti in vendita dal tribunale di Terni. E sarebbero pure stati venduti, solo che – anche se la banca avrebbe operato più di una sollecitazione – sono ancora lì.

La banca Inutile chiedere lumi al Mediocredito Italiano: Giovanna Casiraghi, che ha seguito la procedura, alla quale abbiamo chiesto se da quelle sapessero cosa si combinasse dentro quel capannone e se, per caso, avevano notizie di permessi mancanti o certificati inesistenti, fa sapere che «la nostra policy non ci consente di dare informazioni». E grazie tante.

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