di Walter Patalocco
«I nostri figli lavoreranno all’acciaieria come noi, i nostri nonni e i nostri trisnonni?». Dubbio legittimo, certo, spesso echeggiato durante l’ultima vertenza Ast. Ma si può essere davvero e fino in fondo sicuri che è quella di diventare un siderurgico l’aspirazione dei nostri figli? Se l’acciaio resta un moloch, è nello stesso tempo ancora segno di sviluppo, crescita, innovazione? Lavorare all’acciaieria è considerato ancor oggi appagante dalle nuove generazioni di ternani? E infine: è gratificante per una collettività che le aspirazioni siano le stesse dei trisavoli?
Più di trecento dipendenti (oltre il 10 per cento) hanno scelto di utilizzare la possibilità del ‘premio ad uscire’ e hanno detto sì alla proposta di Ast e ThyssenKrupp: 80 mila euro (ma 61.600 al netto delle tasse) ed hanno lasciato il posto, che la proprietà ha cancellato definitivamente.
Diversi fattori hanno giocato: il rischio di trovarsi ugualmente senza lavoro, e per di più senza incentivo; per alcuni l’essere ormai vicini all’età della pensione. Ma per altri quella proposta è stato l’alibi. La minaccia che li ha aiutati a vincere la paura di un domani non tracciato in partenza, aleatorio, rischioso. E a mettersi in gioco per la loro vera aspirazione che non era, evidentemente, il posto (quasi) fisso e per tutta la vita lavorativa da passare, sì, con la soddisfazione della busta paga del 27 del mese, ma senza conoscere la fortuna di sentirsi realizzati, gratificati, appagati dall’occupazione svolta.
I tecnici, gli studiosi, quelli che parlano bene l’hanno già avviato il dibattito sul tema, sofisticato, delicato ma che sembra sia importante considerare: e sottolineano l’esigenza che sussista una cultura del lavoro che continuando a pretendere la dignità si estenda fino a raggiungere il livello di partecipazione e condivisione degli obiettivi. Per arrivarci si chiede al sistema, istituzioni e imprese, di creare le condizioni perché chi lavora in una fabbrica la senta sua e si senta a sua volta parte di essa, parte importante, attiva e propositiva. Di fare in modo che la componente lavoro non rimanga solo uno dei fattori della produzione, ma sia qualcosa di diverso, più dinamico. e nelle condizioni di svolgere uno ruolo qualificato e qualificante.
Gli esperti individuano nella flessibilità lo strumento necessario. Ma alla parola flessibilità , lo dicono le ‘solite’ statistiche, in Italia corrisponde un concetto negativo, contrariamente a quanto avvenuto in altri Paesi. D’altra parte non era necessario scomodare la scienza per accorgersi che la flessibilità in Italia s’è trasformata in precarietà , in frequenti interruzioni di percezione di reddito e più in generale in situazione stressanti, depauperanti, d’insicurezza. Se questo è il quadro generale è ovvio che l’aspirazione rimane il posto fisso, la busta paga sicura. Un lavoro quel che sia, senza potersi permettere il lusso di pensare a fare un gradino verso una più alta qualità della vita, lavorativa e non.
Difficile, allora, che come si augurano coloro che pongono la questione, s’inneschi un cambio di mentalità , processo non semplice né brevi. E ovviamente non spontaneo: sta al potere pubblico crearne le condizioni partendo da una scuola che sia più vicina ai giovani nella formazione, nella valorizzazione delle peculiarità , nell’indirizzare. Passando per la formazione e l’assistenza (non l’assistenzialismo) di chi si trova senza occupazione. Promuovendo anche tra gli imprenditori una cultura diversa che li porti a una diversa considerazione e valutazione delle risorse del fattore lavoro. E’ la ricetta individuata e posta al centro dei dibattito sul tema.
E allora certi ‘segnali’ come quello uscito dalle acciaierie non possono essere ignorati. Le necessità di intervento sono così tante e variegate che è necessario e possibile per le istituzioni ad ogni livello (locale, regionale, statale) avere un ruolo da svolgere. A partire da subito.