di Giovanni Cardarello
«In Italia non si fanno più figli», «l’Italia è un Paese di culle vuote», «l’Italia è un Paese anziano». Quante volte abbiamo sentito questi slogan, a volta triti e ritriti, a volte decisamente e drammaticamente veri. La sostanza però è che, secondo i dati Istat, nel 2024 si è verificato un ulteriore record al ribasso in tema di nascite. Nel 2023 la discesa era arrivata a 379.890 nuovi bimbi, registrando un calo del 3,4% sull’anno precedente, nell’anno in corso, in base ai dati provvisori relativi a gennaio-novembre, la flessione è ancora maggiore. Un dato che certifica in modo plastico come il numero medio di figli per donna scende a 1,21. Ed è un dato pesante.
Ma del resto se i comportamenti delle aziende e i supporti dello Stato alla natalità sono quelli che emergono dalla storia che stiamo per raccontare, fare figli in Italia è davvero un lusso per pochi. Il caso, di scuola, si è svolto nella nostra regione, ad Assisi, dove ad aprile 2020, in piena pandemia da Covid-19, viene alla luce la bimba di una giovane coppia. Lui è impiegato in un’azienda, lei è infermiera. Due professioni i cui i tempi di congedo parentale spesso rischiano di essere solo nominali. Basti pensare che la mamma è costretta a rientrare presto in servizio chiedendo, però, di avere almeno un giorno a settimana di congedo parentale.
Il papà, nel pieno rispetto della norma, ne chiede invece due. Ma qui accade l’incredibile. L’azienda per cui lavora Marco, dopo qualche mese di congedi parentali decide di farlo ‘pedinare’ e fotografare, convinta che usi i congedi per fare altro. «A lavoro davo sempre disponibilità per metà della giornata – spiega il papà -. Se la mia compagna era di turno la mattina, davo da mangiare a mia figlia, la vestivo e la portavo all’asilo. Ma il più delle volte chiedevo il pomeriggio libero, così da stare con lei se mia madre e mia sorella non potevano occuparsene. Quando mi hanno fatto seguire da un detective, è stata l’azienda stessa a propormi di assentarmi la mattina».
E arrivati alla vigilia di Natale del 2020, Marco viene prima sospeso e poi licenziato. Il motivo ufficiale: «Aver inferto un danno all’azienda». La sostanza, secondo quanto appreso, è ridurre i costi del personale dovuti alla crisi legata alla pandemia. Ma Marco non ci sta, è convinto di avere la legge dalla sua parta e decide di fare causa. E la vince. Come riferisce l’edizione nazionale di La Repubblica del 6 novembre, l’impiegato viene reintegrato al lavoro. Ma qui scatta la decisione definitiva. La vicenda «è stata un incubo» e per questo motivo Marco ha deciso di non accettare il rientro in sede, ‘accontentandosi’ di un risarcimento. Ma un lato positivo nella vicenda c’è: «Mentre ero disoccupato ho potuto occuparmi di mia figlia a tempo pieno. Se si lavora e basta si è papà solo di nome».