di Simone Francioli
«Ho voluto provare e mi sono innamorata». Una scelta di vita, momentanea, che l’ha portata a vivere tra la Sicilia e il mare aperto con unico scopo: salvare più vite umane possibili tra i tanti migranti che provano ad entrare in territorio italiano a bordo di ‘barconi’. Dalla tranquillità di Terni alla ‘vita parallela’ di Lampedusa: lei è la ternana Giorgia Crovari – nativa di Narni – che, da qualche mese, è attiva nell’isola siciliana come volontaria infermiera del Cisom (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta) del gruppo di Terni-Amelia. A umbriaOn ha raccontato la sua esperienza fatta di tensione, stress, passione, sofferenza. Ma anche – e soprattutto – di gioia: «Può sembrare strano, ma ho sempre voglia di ritornarci. Un’esperienza unica».
GIORGIA CROVARI: «LA MIA VITA TRA LAMPEDUSA E IL MARE», IL VIDEO
La scelta inaspettata Giorgia da poco più di un anno si è laureata in infermieristica a Viterbo e la strada per Lampedusa – nel contempo ha avviato un master – è arrivata per caso in una giornata in piscina a Terni: rapido contatto con il Cisom, proposta di lavoro retribuito a Lampedusa e sì immediato: «L’ho fatto – esordisce – per mettermi alla prova. Sono stata una settimana a Norcia per aiutare nel post terremoto, dopo di che mi hanno chiamato da Roma per darmi l’ok: dal 27 settembre al 6 dicembre a Lampedusa, sono tornata molto stanca perché è un periodo lungo che di solito non fanno fare. Quindi piccola pausa e sono riandata dal 27 febbraio al 3 aprile, a fine mese ripartirò: mi sono innamorata di questa attività e ti viene il ‘mal di Lampedusa’ quando vai via. Grande esperienza perché per un infermiere è un lavoro insolito. Non si è né in ospedale né in ambulatorio, ma in una motovedetta oppure una nave militare dove spazi e materiali sono ridotti: occorre inventiva, a livello sanitario si impara ogni giorno e a livello personale si vive un’avventura’ unica. In futuro mi piacerebbe andare in Africa per svolgere questa attività».
Le squadre Giorgia, in riferimento all’attività che svolge in Sicilia, spiega che il Cisom «ha una collaborazione con l’Unione Europea per mettere a disposizione personale a bordo delle imbarcazioni della Guardia costiera; sono la classe 900, la 300 (motovedetta) e la 200. Siamo cinque squadre, due delle quali sono fisse sulla 900 e tre operanti a Lampedusa: ogni team ha un medico e un infermire. Il problema è che siamo pochi collaboratori professionali per tante persone che arrivano».
L’intervento Miglia su miglia in mare aperto per andare a salvare migranti in difficoltà. Ma non sempre: «Noi interveniamo quando – missione ‘Frontex’ – i rimorchiatori Ong sono pieni e quindi devono portare le persone nei porti siciliani, ciò accade quando ci sono tanti sbarchi. A quel punto da Lampedusa – sottolinea la Crovari – ci possono essere tre tipi di lavoro: il trasbordo da una Ong a un pattugliatore della Guardia costiera oppure sia il trasbordo che il recupero in mare, sui gommoni. Spesso e volentieri sono sgonfi con oltre 100 persone a bordo e in questo caso si possono essere anche dei casi gravi. Infine c’è la possibilità di fare il ‘codice rosso’: la motovedetta può arrivare fino a 40 nodi, l’Ong massimo arriva a 15 e quindi gli andiamo incontro, prendiamo i pazienti per portarli a Lampedusa e poi li trasportano in elicottero a Palermo o in un ospedale vicino».
L’impatto ‘shock’ Infermiera e in qualche occasione anche psicologa, spesso in condizioni critiche: «Ho dovuto fare i conti con delle rianimazioni, con ferite da armi di fuoco, con donne che dovevano partorire, con bambini molto piccoli da salvare e purtroppo annegamenti. La mia prima esperienza si è conclusa vedendo – con lei, specifica, c’era la congolese Suor Angel Bipendu, diventata medico dopo essere arrivata in Italia – in ‘diretta’ la morte di due persone in quel modo, non una bella cosa. Alla fine è sempre un terno al lotto e in noi c’è la speranza di poter salvare più vite possibili: ci sono alcuni tra di loro che pensano al gruppo e ti aiutano nel salvataggio, altri migranti invece si sbrigano a mettersi al sicuro e del resto se ne fregano. Talvolta, a causa – scherza – della stanchezza e dello stress, sembro più profuga io che loro».
La scommessa e la ‘prigionia’ « Ad ottobre – racconta – ero presente sulla ‘Bruno Gregoretti’ quando i migranti sono sbarcati a Napoli, ci mettemmo un giorno e mezzo ad andare ed eravamo 800 persone a bordo. Ho iniziato tutto per scommessa perché non mi ritenevo adatta per la medicina d’urgenza, ma il mondo militare mi ha sempre attratto: quando sono salita a bordo di una motovedetta per la prima volta è stato bellissimo. Certo, il lavoro è andare a salvare persone disperate avendo a disposizione degli spazi piccoli: ogni soccorso – mette in evidenza – è diverso e non sono paragonabili. Con la Guardia costiera è un continuo sostenersi a vicenda perché si è lontani dagli affetti familiari, si vedono cose non belle e si è un po’ ‘prigionieri’ dell’isola. Sono loro che mi hanno spinto a tornare a Terni per ‘staccare’ un po’ nonostante non volessi, anche se in realtà qui sono volontaria come soccorritrice per l’Opa e faccio servizio al 118».
Freddezza e sensibilità Visi devastati dalla fatica e dalla sofferenza, spesso e volentieri l’impotenza di non poter far nulla. Il rischio di cedere – più che a livello fisico – psicologicamente è forte: «Non abbiamo orari – prosegue la Crovari – perché siamo reperibili 24h sette giorni su sette: niente turni, ma ordini di uscita. Le motovedette vanno sempre in due perché una deve assistenza all’altra nel caso accada qualcosa in particolare e il viaggio di ritorno è complicato perché lo si fa con i migranti a bordo, in maniera molto lenta: magari bisogna lavorare con il mare mosso e in pochi metri. In queste situazioni occorre essere ‘freddi’, se ti emozioni è la fine. Poi quando arrivi a terra puoi fare ciò che vuoi, chiaro poi che non si possano fare 28 ore fuori in mare rimanendo sempre seri. Ci vogliono dei momenti di svago per la testa altrimenti diventa insopportabile. I bambini – spiega – li facciamo cantare e ballare, qualche volta giochiamo a calcio con loro a Lampedusa».

Vita o morte Uscire e salvare vite, stop, senza pensare troppo. Perché «le persone hanno bisogno di assistenza sanitaria e con il medico ci imbarchiamo facendo uscite in mare anche di 28-30 ore, quindi si ritorna a terra per 4 ore di riposo e si riparte perché ci sono uomini, donne incinte e bambini piccoli bisognosi di aiuto. Nessuno può decidere – mette in risalto la Crovari – se devono vivere o morire: cerco solo di rendergli una traversata migliore o comunque più comoda a livello sanitario, portandoli poi a Lampedusa. Un’esperienza che ti fa maturare e ti lascia qualcosa dentro di molto forte. Si ha sempre voglia di ritornarci, anche perché poi si lega con tutte le persone coinvolte: sull’isola vivo in una sorta di ‘casermone’ in zona Cavallo Bianco e andiamo a mangiare alla mensa dell’Aeronautica. Si sviluppa una grande famiglia».
L’occhio del bambino Un abbraccio, una carezza o un qualsiasi segnale di vita da parte di un bambino, il momento più significativo e ‘caldo‘: «Si collabora con persone di un’esperienza impressionante e con professionisti di rilievo. Sì, si vedono cose brutte, tra le quali la morte di bambini: quando vedi i loro occhi tutto cambia, specie quando durante una brutta traversata c’è un piccolo che ti sorride. Quando una persona è stanca, magari dopo anni di viaggio per raggiungere l’Italia e sa di essere salva, i suoi occhi si ‘accendono’ e si passa a momenti di divertimento. Per capire cosa c’è dietro agli sbarchi consiglio di andare a vedere Lampedusa: loro scappano dalle loro terre per povertà, per avere diritti e per cercare di avere un futuro. Non si possono lasciare così, al loro destino a trenta miglia dalla costa».
La gestione Salvare ed ‘educare’: «Non ci sono – parla della tipologia di migranti che giungono in Italia – solo persone che vogliono approfittare della situazione, ma anche laureati, infermieri, medici e giovani colti con voglia reale di emergere e di fare qualcosa. Tra loro c’è chi, durante uno sbarco difficile, ci ha aiutato nella traduzione perché la lingua ovviamente è un ostacolo: il discorso è che non sempre portare queste persone è negativo. Una realtà che in pochi conoscono, quasi tutti guardano quelli che fanno la rivolta e coloro che si drogano: su 6 mila che ne abbiamo recuperati in un giorno, solo 50 fanno ciò. Danno a noi che proviamo a salvarli piuttosto che allo Stato: se gli facessero – il pensiero della Crovari – fare lavori socialmente utili in cambio di vitto e alloggio piuttosto che dargli 40 euro al giorno le cose andrebbe meglio».
‘Vita parallela’ Giorgia ritornerà in Sicilia e per il momento potrà continuare a vivere la sua ‘scommessa’: «Quando arriverà il momento di stabilizzarmi e non andare più mi verrà il magone, perché è un lavoro che non ti rende la vita facile facendo un mese sì e un mese no a Lampedusa. L’isola è ‘magica’, si sviluppa una collaborazione con la Guardia costiera unica: nasce un grande gruppo e una volta che ti allontani ti manca tutto. Li ammiro veramente perché faticano moltissimo con entusiasmo, mi ha colpito questa cosa. Un’esperienza che è difficile da tradurre in parole, si può solo vivere. Un continuo crescere in una vita parallela. E se c’è da fare poco è un bene, perché vorrebbe dire – conclude – che non c’è nessun bambino o donna incinta da salvare».