Mascherine dal settore moda: ‘stop’ all’italiana

Il comparto vorrebbe aiutare ma è bloccato da ragioni che in tempo di Covid appaiono orpelli burocratici privi di senso. Parlano Alessandra Robatto e Marco Cardinalini

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di Alice Tombesi

«La buona volontà è bloccata». Ad affermarlo è Alessandra Robatto, difensore civico della Provincia di Terni e socia attiva del Club Service Soroptimist International, che dà voce al disagio di alcune aziende del Sistema moda Italia, la federazione della moda italiana, che dopo il blocco nazionale della gran parte delle attività lavorative – compresa la loro – hanno pensato di sfruttare le aziende per riconvertire la produzione nella fabbricazione di mascherine.

EMERGENZA CORONAVIRUS – UMBRIAON

Alessandra Robatto

Il ‘nodo’ dei tessuti

Per la maggior parte delle imprese, però, il progetto è rimasto in potenza: «Il decreto Cura Italia all’articolo 15, pur togliendo ai produttori l’obbligo di certificazione CE, impone di autocertificare la rispondenza dei tessuti usati a quelli certificati per legge – spiega la Robatto -. Di conseguenza numerose aziende non possono produrre perché rischiano, poi, di non ottenere la certificazione da parte dell’Istituto superiore della Sanità che confermi la deroga».

Marco Cardinalini

Standby ‘all’italiana’

L’obiettivo (riconvertire il settore moda italiano in produzione di mascherine) sembra facile da raggiungere, considerando che le aziende hanno già a disposizione i macchinari e il ‘know how’ per produrre i presidi. L’iter burocratico italiano, però, costringe i dirigenti a frenare e tornare indietro nella maggior parte dei casi. Perché? «Prima dovremmo fare domanda al prefetto, poi verrà mandato l’ispettorato nello stabilimento per controllare se rispettiamo i controlli di sicurezza e infine dovremmo aspettare la risposta dell’Iss per avere una conferma sulla bontà del tessuto e quindi di via libera alla produzione» afferma Marco Cardinalini, proprietario della nota azienda tessile di Montecastrilli e vicepresidente di Confindustria Umbria moda. Qualora invece si decidesse di produrre nonostante tutto, le aziende dovrebbero assumersi la responsabilità civile di mettere a disposizione mascherine consapevoli che potrebbero incorrere in sanzioni.

Eccezioni

Tutto questo sarebbe semplificato se l’Italia fosse produttrice primaria del materiale delle mascherine, tessuto non tessuto da una parte e materiale idrorepellente dall’altro: «Non si trova, ad eccezione di quelle aziende deputate a produzioni sanitarie che devono rifornire la Protezione civile» afferma Alessandra Robatto. Problema che non sussiste per tutte quelle industrie che producono tutto al loro interno, come Armani. Il noto marchio ha da poco annunciato la riconversione della produzione nella fabbricazione di camici medici: «Il loro è un sistema verticalizzato – spiega Cardinalini -, producono tutto al loro interno senza essere legati ad altre aziende. In più essendo un colosso della moda è più facile ottenere la certificazione dall’Istituto della sanità». È lo specchio dell’eterno confronto del singolo con il sistema, la buona volontà bloccata o spaventata dalla burocrazia. Anche quando il singolo, non potendo fare più nulla, cerca comunque di fare qualcosa (per tutti).

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