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Home » Padelle per cucinare dai rifiuti pericolosi

Padelle per cucinare dai rifiuti pericolosi

di Lucina Paternesi
12 Ottobre 2017
in Apertura 5
Tempo di lettura: 3 minuti di lettura
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Motori di treni o compressori di frigoriferi che, dall’altra parte del mondo, diventavano padelle. L’inchiesta portata avanti dalla Guardia Costiera coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma che ha portato all’arresto di sette persone e al sequestro di alcuni impianti, un’azienda di Orvieto e una di Castiglione in Teverina, Viterbo, fa emergere risvolti inquietanti su come lavorava l’associazione criminale.

Gli arresti A finire in manette, su mandato del Gip di Roma, Paolo Trentavizi, Carmelo Paolucci, Roberto Mattaroccia, Emanuela Spaccino, Elisa Lipparoni, Manuele Marchino e Nicolò Cioci, cioè i titolari, dipendenti amministrativi e tecnici dell’azienda Allumini Frantumati di Orvieto e della società Tmr srl di Castiglione in Teverina. Tutti ai domiciliari, eccetto uno, rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, per loro l’accusa è associazione per delinquere finalizzata al traffico, alla gestione e alla miscelazione illecita di rifiuti, autoriciclaggio e falso.

IL VIDEO DEGLI ARRESTI 

Il sistema Secondo gli inquirenti gli indagati avrebbero dato vita a un’organizzazione criminale che aveva a capo Paolo Trentavizi, titolare della ex Trentavizi Spa, a cui sarebbero succeduti l’attuale titolare di Alluminio Frantumati Paolucci e Mattaroccia della Tmr srl. A quest’ultimo, secondo la Guardia costiera, rispondeva Cioci, del settore amministrativo della Tmr. Per l’Alluminio frantumati sono invece stati arrestati Spaccino e Lipparoni, del settore amministrativo, e Marchino di quello operativo.

Documenti falsi Tonnellate di rifiuti metallici tossici venivano spediti via mare dall’Italia fino in Asia per un giro d’affari che, secondo gli inquirenti, si aggirava su oltre 45 milioni di euro l’anno. Rottami, componenti vecchie, motori di treni o automezzi partivano per Cina, Pakistan, Corea e Indonesia dai principali porti italiani come Civitavecchia, Livorno, La Spezia, Genova e Ravenna. Le bolle di accompagnamento parlavano di rifiuti già trattati, bonificati e pronti per essere reimmessi nel ciclo produttivo. Le analisi chimiche, invece, hanno fatto emergere tutta un’altra realtà. Livelli di solventi e idrocarburi molto superiori ai limiti consentiti. Una volta che i materiali erano arrivati a destinazione, cioè in quei paesi in cui la normativa a tutela dell’ambiente è molto meno stringente, si sarebbero trasformati in ogni genere di merce. Padelle per cucinare, elettrodomestici ma anche componenti per automobili.

Le intercettazioni telefoniche avrebbero fatto emergere che la scelta di far partire la merce non trattata dai vari porti italiani era funzionale a non dare troppo nell’occhio. Le indagini, coordinate dall’ammiraglio Giuseppe Tarzia e partite a inizio 2016 con ispezioni ad alcuni container sospetti individuati a Civitavecchia dalla Capitaneria di porto e dall’Agenzia delle dogane, hanno invece permesso di ricostruire la movimentazione dei rifiuti non trattati attraverso i sistemi di videosorveglianza presenti nei porti e gli spostamenti dei camion carichi di rifiuti.

‘End of waste’ Attraverso false documentazioni e attestazioni, i soggetti arrestati acquistavano rifiuti industriali complessi e contaminati, su tutti da Pbc, policlorobifenili – di tossicità equiparata alla diossina e, dopo aver simulato lo svolgimento di procedure di bonifica in Italia, lo rivendevano tal quale come materiale recuperato e ‘pronto forno’ per un nuovo ciclo produttivo. Ma in realtà i rifiuti nel nostro paese subivano solamente una mera ‘macinatura’ per poi essere spediti nei vari paesi ancora fortemente inquinanti senza scrupolo da parte degli indagati per la salute degli operatori in contatto con le sostanze nocive.

Il ‘mischiotto’ Se qualcuno si accorgeva del trucco, era già pronta la soluzione: interveniva un operaio – tra i sette arrestati – per creare quello che nelle telefonate intercettate viene chiamato ‘il mischiotto’. Un mix di prodotto tossico e non trattato in base alle norme, in modo da abbassare la percentuale di sostanze inquinanti e di rendere ‘commerciale’ il rifiuto.  Assieme ai sigilli alle aziende, gli inquirenti hanno anche sequestrato 10 milioni di euro di beni mentre, come assicura l’ammiraglio Giuseppe Tarzia, all’epoca comandante del porto di Civitavecchia e ora a Livorno, «non si tratta di un caso isolato e per questo il nostro impegno ambientale proseguirà anche su questo versante».

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