«Nella città di Terni esistono alloggi da riservare alle situazioni di grave emergenza abitativa? Quelle che richiedono una soluzione immediata e che, per loro natura, spesso non sono neanche in condizioni di poter attendere le lungaggini burocratiche della Commissione che assegna gli alloggi pubblici, come ad esempio chi subisce uno sfratto esecutivo? Di questo tema sembra che nessuno se ne voglia occupare». La denuncia è del Sunia Cgil, che sottolinea in una nota come a Terni «gli alloggi pubblici da assegnare mediante graduatoria sono circa 100, con i quali si riuscirebbe a coprire circa il 30% delle domande per l’assegnazione di una casa popolare, mentre per le situazioni di emergenza abitativa non ci sono alloggi riservati, nonostante la legge regionale preveda proprio che una parte del parco alloggi pubblici disponibili debba essere riservato per far fronte a tali situazioni».
Decisioni incomprensibili
Romolo Bartolucci, segretario del Sunia, affronta il tema dell’emergenza casa collegandovi quello dell’annunciata vendita di 50 case popolari da parte dell’Ater, verso cui è particolarmente critico. «La decisione dell’Ater Umbria di vendere 50 alloggi popolari invece di destinarli a scopi socialmente sensibili, coerenti con il motivo per il quale esiste l’Ater, risulta incomprensibile. La ragione istitutiva di un ente come l’Ater è quella di rispondere alle esigenze abitative delle fasce sociali più in difficoltà, non di trasformarsi in un’agenzia immobiliare che dismette alloggi per motivi puramente ‘gestionali’ e non economici. Al posto di venderli al mercato quegli alloggi potrebbero essere messi a disposizione e utilizzati per affrontare il problema delle emergenze abitative come quella di Sabrina Zagaglioni, giovane vedova con tre bambini minori a carico, di cui uno con problemi di salute, ma ancora senza un tetto per l’inattività della Commissione assegnazione alloggi del Comune di Terni, bloccata per problemi burocratici di rinnovo dei propri membri».
Basta giocare al rimpallo delle responsabilità
Infine Bartolucci affonda: «Il Comune di Terni, per bocca dell’assessore al welfare e alle politiche abitative marco Celestino Cecconi, conferma che ‘mamma Sabrina’ è regolarmente in graduatoria, per cui della sua situazione drammatica la responsabile è la commissione, da poco rinominata. Io invece penso che bisogna smetterla di giocare al rimpallo delle responsabilità tra Ater, Comune e Commissione, perché le tante ‘mamma Sabrina’ che ancora aspettano un tetto e vivono in situazioni emergenziali hanno bisogno di risposte certe e in tempi brevi, anche fuori dalle ordinarie tempistiche burocratiche. Magari attingendo alle case dell’Ater vuote da anni, invece di venderle, destinando finalmente un parco alloggi alle emergenze abitative».
La Fillea Cgil
«A fronte del perdurare della crisi dell’edilizia nella provincia di Terni, dove dal 2009 ad oggi gli addetti del settore sono diminuiti di oltre il 50%, la possibilità di poter ristrutturare le case popolari può costituire un’opportunità occupazionale interessante, magari costruendo una sinergia tra più attori attraverso modalità di azione come la procedura negoziata, nella speranza di favorire la permanenza del lavoro nel territorio. Invece apprendiamo dalla stampa che anche da parte dell’Ater la preoccupazione è di vendere parte del patrimonio abitativo pubblico. Una scelta che ci lascia piuttosto perplessi». Interviene così la Fillea Cgil di Terni sull’ipotesi di dismettere parte del patrimonio abitativo pubblico con la vendita di 50 alloggi popolari. Il settore edile – il commento Fillea Cgil – in questi anni è stato letteralmente devastato e non vi sono segnali di ripresa da nessuna parte. Persino la ricostruzione post-sisma, dipinta dal battage elettorale come il più grande cantiere d’Europa, è ancora ferma al caos e all’anno zero. Non è stato ancora completato nemmeno lo sgombero delle macerie e sono già passati due anni. Con le aste delle 50 case popolari andate tutte deserte i prezzi sono verosimilmente destinati a scendere, con il rischio che l’intera faccenda si trasformi in un’operazione di speculazione grazie alla quale soggetti, in grado di acquistare un alloggio e dunque non bisognosi di tutela abitativa, possono accaparrarsi appartamenti a prezzi vantaggiosi privando l’ente di risorse preziose per l’attività di manutenzione edilizia, ordinaria e straordinaria».
L’idea che non va
«Quando si parla – le parole di Cristiano Costanzi, segretario generale degli edili Cgil di Terni – di vendere case popolari, bisogna tenere presente che in media il rapporto tra venduto e nuove costruzioni è, a essere ottimisti, di 1 a 4. Ciò vuol dire che il parco alloggi pubblici diminuirà, e con esso anche gli introiti per ristrutturazioni e manutenzioni. Vale lo stesso per quanto afferma in queste ore l’assessore al welfare, Cecconi, che sembra aver fatto sua la vecchia proposta dell’allora ministro Brunetta di vendere le case popolari (definite da Brunetta “capitale morto”) per ristrutturarne altre. Una vecchia idea, già osteggiata dai gestori di edilizia pubblica di mezza Italia, di ogni colore politico, poiché indebolirebbe un patrimonio abitativo già tra i più bassi d’Europa senza generare introiti significativi. Una situazione che, unita al momentaneo (speriamo) venir meno dei fondi per la riqualificazione delle periferie, rischia di diventare l’ennesima occasione persa dal punto di vista occupazionale per il settore delle costruzioni, ma anche la mancata partenza dell’auspicato recupero sociale delle zone urbane degradate. La Cgil, fin dal 2013 con il piano del lavoro, ha disegnato un percorso non solo per rilanciare un settore trainante come quello edile, ma anche per restituire alle nostre città spazi di coesione. Personalmente provengo dalla periferia della città, dove sono cresciuto e ho vissuto a lungo. All’epoca lo ‘straniero’ era chi proveniva dal Mezzogiorno, chiamato spregiativamente ‘terrone’, visto come pericolo per la sicurezza e relegato in situazioni fatiscenti, come oggi i migranti. In quel caso però la politica non propose steccati o ronde, ma organizzò un intervento strutturale sui quartieri, trasformandoli in zone vivibili con verde attrezzato, scuole, palestre. Tutto ciò, unito a un’offerta lavorativa di qualità, permise a quei pezzi di città di fondersi con il resto del tessuto urbano, favorendo sviluppo e crescita collettiva. C’è bisogno di azioni come quella, con attori pubblici che intervengono esercitando una funzione di indirizzo, non di un’ulteriore dismissione di patrimonio pubblico relegando – termina – al mercato la decisione su quale debba essere la città che vivremo».