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Home » Terni, nuova economia e vecchie ricette

Terni, nuova economia e vecchie ricette

di Simone Francioli
15 Luglio 2015
in Economia, Il corsivo, Politica
Tempo di lettura: 2 minuti di lettura
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di Walter Patalocco

La Cgil ternana, nel giro di una settimana, ha sollecitato una discussione seria che abbia al centro dell’attenzione la questione del lavoro e quindi dell’economia. L’ha fatto rivolgendosi prima all’amministrazione comunale di Terni esternando la preoccupazione per le difficoltà di bilancio e la paventata riduzione di servizi pubblici essenziali; e successivamente sollecitando la nuova giunta regionale con una richiesta diretta: cosa intende fare la nuova giunta? Quali strumenti intende mettere in campo per risollevare il nostro sistema produttivo?

Perché il quadro secondo la Cgil ternana è a tinte fosche:  “Non ci sono passi in avanti sul fronte del lavoro, molti settori produttivi non intravedono segnali di inversione del trend. È così per l’edilizia, per gran parte del settore chimico e di quello meccanico, mentre il settore agroalimentare vive una fase di fortissima tensione e il crollo dei consumi si ripercuote pesantemente su commercio e terziario». La crisi continua a mordere, non c’è alcun segnale positivo, è ora di andare oltre le analisi. Basta chiacchiere: fatti, sollecita la Cgil.

La Uil, sempre da Terni, appunta gli strali su una questione specifica, ma molto significativa: l’utilizzo dei Fondi europei per lo sviluppo regionale, un fronte su cui la Regione umbra, stando ai dati diffusi dal Sole24Ore non dimostra una grande brillantezza. Per i fondi europei per lo sviluppo regionale (Fesr) in una classifica della spesa da parte delle regioni italiane l’Umbria è sedicesima con risorse non utilizzate pari al 22,2% di quelle disponibili. Peggio quando si parla di Fondi europei per lo sviluppo (mirati più che per aree regionali per aree di crisi) l’Umbria è diciannovesima risultando non speso il 23,3% delle risorse. Peggio hanno fatto solo la provincia autonoma di Bolzano e l’Abruzzo. Serve o no una maggiore dinamicità? Una maggiore presenza, velocità e capacità di intervento?

E’ possibile che l’Istituzione pubblica abdichi in qualche modo al proprio ruolo e deleghi le azioni per la ripresa ad altri, ai privati? Il sindacato vuole che non sia del tutto così. Che i sindacati, almeno essi, abbiano deciso di prendere il toro per le corna? Di darsi per primi una scrollata e tornare ai tempi in cui la loro capacità propositiva, l’accuratezza delle analisi, il saper guardare avanti ne faceva un soggetto politico e sociale capace di incidere sulle decisioni generali? Ancora non pare così.

Il sollecito, che appare così deciso, sembra però essere limitato da un gioco di difesa più che ad imporre un nuovo modulo per stare in campo, di tutela più che di crescita e dinamismo, che passa attraverso la riproposizione di formule fascinose. Formule perseguite per e da anni passando dai bacini di crisi, alle aree di crisi più o meno complessa nell’evidenziazione della necessità di provvedimenti normativi che risultano vani senza la decisione, l’iniziativa, la determinazione di utilizzare, poi con coraggio, tutti i mezzi a disposizione.

E con l’occhio rivolto alla crescita del sistema economico, per una tutela che sia del lavoro più che di lavoratori appartenenti a questo o quel settore, o ad aree e bacini che si portano sempre appresso, attaccata, la stessa specificazione: «di crisi».

 

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