di Maurizio Benvenuti
Segreteria provinciale Sinistra Italiana – Terni
La richiesta di Arvedi Ast di sospendere nel corrente mese di settembre per una settimana l’attività produttiva di una linea dell’area a caldo, ponendo in cassa integrazione circa 200 lavoratori, rappresenta un’accelerazione nello scontro tra Governo e Arvedi sul costo dell’energia elettrica.
Nei giorni precedenti Arvedi era già sceso in campo con una scelta comunicativa inusuale ed inaspettata. È il modello-Marchionne, secondo cui l’azienda interviene direttamente nella scena politico-istituzionale senza intermediari: una novità per Terni, ma tutt’altro che una novità assoluta. Arvedi lo ha fatto con un grande telone, una vela affissa all’ingresso principale di Ast in viale Brin, piena di scritte ed immagini, dietro cui c’è un pensiero ed un indirizzo di politica aziendale che ha molte implicazioni e risvolti. Lo farà poi, in grande stile, con una mostra ai primi di ottobre al PalaSì.
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È certamente inusuale che Arvedi abbia deciso di portare un attacco pubblico diretto al governo nazionale. È una scelta molto forte, anche perché compiuta a ridosso di una scadenza elettorale per il rinnovo del governo regionale, costituito oggi dalle stesse forze che compongono il governo nazionale. L’oggetto del contendere è il gap nei trattamenti tariffari dell’energia elettrica tra l’Italia e i Paesi dove operano i competitors europei di Ast. Si ricorre a due argomenti, uno di carattere storico e uno di attualità. L’argomento storico rimanda ad una vicenda ormai rinvenibile solo nei libri di storia economica ed industriale, quello della nazionalizzazione del settore della produzione elettrica all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso. L’attualità riguarda le diverse condizioni tariffarie applicate nei diversi Paesi europei.
L’argomento storico viene impostato con un taglio aziendalistico-municipalistico. Il sistema idroelettrico Nera-Velino lo ha costruito la ‘Terni’. Quando esso è stato espropriato con la nascita dell’Enel, la ‘Terni’ di allora né ha goduto dell’esenzione di cui beneficiarono altre imprese industriali autoproduttrici di energia elettrica, né di un adeguato indennizzo in termini finanziari. Quindi o rivalutiamo le somme che a suo tempo furono pagate o ci ridate il ‘nostro’ sistema di produzione idroelettrico. Questo è sostanzialmente il messaggio di Arvedi.
Si ripropone così l’attualissimo tema dell’uso strumentale (e deformato) della storia per finalità politiche immediate. Stiamo parlando di una vicenda che risale a più di 60 anni fa, di cui praticamente nessuno può conservare memoria, ed è quindi più facile confondere le acque. La nazionalizzazione della produzione e della distribuzione (primaria) dell’energia elettrica, sancita con un decreto legge della fine del ‘62, comportò effettivamente l’esproprio delle centrali idroelettriche del sistema Nera-Velino. Quello del Nera-Velino era l’unico rilevante sistema produttivo del centro Italia e come tale costituiva l’unico possibile anello di congiunzione tra la rete del nord Italia e quella del sud. Altrimenti Enel non sarebbe potuta neppure nascere.
Quale fu la contropartita? Una tariffa agevolata (che è rimasta in vigore per 46 anni, fino al 2010) per i consumi elettrici degli impianti siderurgici; una, sia pur modesta, derivazione per mantenere una, sia pur limitata, capacità autoproduttiva e un indennizzo monetario di 125 miliardi di lire (che però incamerò la capogruppo Finsider e non la società nascente dalle ceneri della Terni polisettoriale). 125 miliardi di lire era infatti il valore degli impianti idroelettrici iscritto a bilancio della ‘Terni’ polisettoriale.
Invece di re-investirli a Terni, la Democrazia Cristiana decise di utilizzarli per realizzare Taranto. La sinistra, umbra e ternana, reagì molto duramente. Aggiuntive contropartite finanziare non ne vennero, ma sull’onda di quella reazione si ebbe il secondo dibattito parlamentare – il primo è del 1960 – sull’Umbria, quello del ’66. Cosa si configurò? Prendo in prestito le parole dello storico Franco Bonelli, autore de ‘Lo sviluppo di una grande impresa in Italia’ (Einaudi 1975): «La nuova ‘Terni’ siderurgica nasceva con un programma industriale definito […] la cui premessa economica era individuata nell’allargamento della domanda di prodotti siderurgici speciali: la ‘Terni’ copriva quasi il fabbisogno nazionale di nastri magnetici, si avviava a diventare la maggiore impresa produttiva di nastri inossidabili, era la sola capace di fornire grandi fucinati destinati ad impianti per la produzione di energia. Produceva inoltre tondo di alta qualità per l’edilizia ed era dotata di una capacità di laminazione superiore al milione di tonnellate l’anno».
Questa descrizione di Bonelli è la configurazione produttiva della ‘Terni’ che abbiamo conosciuto per decenni. È la configurazione che costruì e sostenne Gianlupo Osti, direttore generale dal 1965 ed anche amministratore delegato dal ’72 al ’75. Come si fa ad ignorare questi passaggi quando si soppesa cosa ha perso e cosa ha avuto lo stabilimento di Terni dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica? Questa configurazione ha consentito, sia pur solo parzialmente, allo stabilimento ternano di avere una sorte diversa da altri siti siderurgici come Taranto e Piombino. È andata così perché dal 1962 e dagli anni successivi, investimenti pubblici ingenti hanno affermato e consolidato questa configurazione.
Nel 1987 si è avuto l’altro passaggio cruciale. Il piano Finsider di Lupo e Gambardella fu respinto a suon di scioperi e si ottennero investimenti importanti (che portarono tra l’altro al grande intervento a tutela dell’ambiente interno ed esterno, costituito dalla coibentazione dei forni). Quando i tedeschi di Krupp entrano per i primi sopralluoghi, in vista della privatizzazione del 1994, trovano uno stabilimento moderno.
Il denaro pubblico che è arrivato per gli investimenti allo stabilimento di Terni non è stato un regalo. I lavoratori se lo sono dovuto conquistare: lotte, scioperi e sacrifici. Nel frattempo abbiamo scontato sia la mancanza di una politica industriale degna di questo nome, conseguenza della ubriacatura neoliberista che ha preso tutti, a destra e a sinistra, sia l’assenza di un piano energetico nazionale, anche in questo caso perché la politica energetica è stata messa nelle mani di grandi oligopoli privati o operanti con logiche private, sempre più influenzati dai mercati finanziari. È qui da cercare la ragione delle alte tariffe dell’energia elettrica.
Ma perché fare appello al vittimismo localistico («siamo stati maltrattati») e al municipalismo («aridatece la centrale»)? Una consulenza storica non all’altezza? L’impressione, piuttosto, è che Arvedi la imposti così per costruire una egemonia, un consenso, in una città in cui lo smarrimento e la perdita di fiducia si accompagnano alla diffusa sensazione di essere stati abbandonati da tutti. Che Ast Arvedi paghi di più l’energia elettrica rispetto ai competitors europei è incontrovertibile. Ma questo non è l’effetto di un accanimento verso il sito di Terni. Arvedi paga forse meno l’energia elettrica a Cremona? E perché non pone il problema che tutto il gruppo paga troppo l’energia elettrica? E perché tutta questa enfasi sulle bramme comprate sul mercato che costano di meno delle bramme prodotte con la fusione del rottame, nei propri forni di Terni? Perché questo varrebbe solo a Terni e non anche a Cremona? Sarà per caso che si potrebbe un domani fare a meno dei forni di Terni, mentre quelli di Cremona non si toccano?
Lo ‘spegnimento’ dell’area a caldo metterebbe d’accordo chi vuole risparmiare sull’energia e un ecologismo integralista che la grande industria la vorrebbe proprio vedere cancellata. Ma gli effetti occupazionali di una simile decisione, in quante centinaia di posti di lavoro in meno, li calcoliamo? E chi assicura che le bramme cinesi o indiane costeranno sempre di meno di quelle autoprodotte? Vorrà dire qualcosa che il centro siderurgico di Piombino riparte, con l’indiana Jindal, con l’attivazione di un’area a caldo che consente una capacità produttiva tra i due e tre milioni di tonnellate/anno.
Chiedere di alzare lo sguardo (come si fece negli anni ’60, pur con limiti, incertezze e resistenze) sembra chiedere troppo. L’orizzonte della transizione ecologica, energetica e tecnologica, quello dell’economia circolare cui pure si riconnettono le proposte del ritorno della lavorazione del lamierino magnetico, la produzione in loco dell’idrogeno verde, il progetto del recupero delle scorie , dovrebbero costituire il vero riferimento per istituzioni, forze politiche e azienda. Si dovrebbero chiamare centri di ricerca ed università, con un respiro almeno europeo, si dovrebbe studiare come si potrebbero evolvere i settori delle infrastrutture energetiche e della mobilità, in sostanza si dovrebbe provare a capire quale e quanto acciaio occorre in una società e in una economia che vada verso uno sviluppo sostenibile.
Ci si dovrebbe cimentare sul grande tema di come la trasformazione di un’azienda carbon intensive (660 mila tonnellate/anno di CO2, chissà perché Terni tra le città più calde d’Italia, per non parlare di tutti gli altri problemi di carattere ambientale) possa divenire, da vincolo, un’opportunità per il territorio. Una Hydrogen Valley nella conca ternana, un sistema di trattamento, combustione, riciclo e cattura della CO2, un grande programma per le fonti rinnovabili. Ma c’è bisogno di un cambio radicale nelle politiche generali del governo nazionale, che la Regione presidii seriamente la definizione dell’Accordo di programma, che il Comune si ricordi che rappresenta l’interesse generale della città.
Quanto ad Arvedi, appena a marzo scorso la sua Fondazione aveva proposto «una giornata di lavoro» per «individuare insieme le priorità dello sviluppo locale» in nome della responsabilità sociale di impresa. Flatus vocis, a quanto pare. Si apre una fase di scontro e toccherà ancora una volta ai lavoratori, alle loro organizzazioni sindacali e politiche, mettersi sulle spalle, insieme alla tutela dei più deboli, una prospettiva di futuro.
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