Cooperativa Perugina: «Ecco tutta la verità»

I componenti del gruppo che aveva proposto l’idea della cooperativa: «Idea fallita per colpa di Nestlé, Toia ha omesso di ricordare certe condizioni». La ricostruzione

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A vederli da lontano sembrerebbero normali pensionati che si radunano al tavolino di un bar a parlare del bel tempo che fu. In realtà parlano di cose ben più serie. Da loro, se davvero qualcuno avesse voluto, poteva cominciare un nuovo futuro per la Perugina.

Alcuni cioccolatini storici

Cioccolatini nel cuore Sono gli ex dirigenti della fabbrica di San Sisto che lo scorso autunno avevano lanciato l’idea del workers buy-out, in modo da ‘salvare’ una parte degli operai in uscita proseguendo la produzione dei vecchi prodotti a marchio Perugina, rimasti nel cuore di tutti: Royal Drinks, Pomona, Canasta, Dragees, La voglia matta, Flipper, Settesere, Recital, Trebon… e chissà quanti altri. Avevano però bisogno delle autorizzazioni di Nestlé, sia per i marchi dei singoli prodotti sia per il brand Perugina. In cambio, si impegnavano ad assorbire parte degli esuberi in uscita al 30 giugno. Un progetto che piaceva (e piace) al Mise, ma non ai sindacati. E nemmeno a Nestlé, che già a dicembre, aveva fatto capire di non essere interessata all’idea, tanto che – dopo un comunicato arrivato da Milano il 12 dicembre – i promotori dell’iniziativa decisero di disertare l’incontro già convocato per il 15.

L’incontro a gennaio Quello che non si sapeva (e che emerge in queste ore) è che poi un incontro si è effettivamente tenuto: su pressioni del Mise, Nestlé e gli ex dirigenti Perugina si sono visti a Milano a il giorno 11 gennaio. E in quella sede, non potendo tirarsi indietro, i dirigenti Nestlé avrebbero anche avanzato delle proposte, ponendo delle condizioni. Oggi Toia la spiega così: «Ci siamo resi disponibili ad un accordo per cedere vecchi marchi di cioccolatini non più utilizzati, ma questi debbono essere prodotti con una attività svolta autonomamente fuori dallo stabilimento di San Sisto. Non possiamo ovviamente cedere in uso ad altri il marchio Perugina e ci deve essere autonomia anche da un punto di vista commerciale. Purtroppo – ha raccontato ad Ansa – a fronte di queste nostre semplici osservazioni chi aveva avanzato la proposta ha detto di non essere più interessato».

«Toia non dice tutta la verità» In realtà le cose non sarebbero andate esattamente così. E gli ex dirigenti Perugina, pur confermando che anche per loro la trattativa è ormai morta e defunta, ci tengono a ristabilire la verità, per orgoglio, per correttezza verso chi ci aveva creduto, per amore verso Perugina e San Sisto. Il primo a sbottare, a caldo sui social, è stato Francesco Falcinelli, uno dei componenti del gruppo, che in Perugina era direttore del personale. Nella mattinata di mercoledì – nel giorno di San Valentino, quello che storicamente rappresentava il trionfo di vendite per i Baci Perugina e oggi è diventato il giorno più triste per gli operai – alcuni degli ex dirigenti si sono riuniti per mettere nero su bianco tutti i passaggi della vicenda, in un lungo e articolato comunicato stampa. Scrivono che, «sensibilizzati dalle recenti problematiche», hanno ritenuto di poter contribuire con un progetto «di rivalorizzazione attualizzata delle proposte top di gamma anni Sessanta e Ottanta», con il presupposto di «collaborare propositivamente e proficuamente con Nestlé, nell’ottica di creazione di valore individuale e collettivo».

Il comunicato integrale

«Come con Buitoni…» Un progetto che traeva spunto «da quanto Nestlé ha già fatto in altre situazioni, con l’attivazione di rapporti di partnership esterne e dando la concessione d’uso del marchio, così come è stato fatto con Buitoni, nel caso dei prodotti shelf-stable o con Perugina per il mercato caramelle». Un business da condurre attraverso «riproposizione, produzione e commercializzazione della linea Perugina di specialità artigianali di elevatissima qualità e prestigio», prodotti dismessi in passato da riproporre sul mercato in chiave innovativa.

Produzione e distribuzione I dirigenti chiariscono pure che per la creazione di una nuova realtà produttiva erano stati individuati «canali di finanziamento sia pubblici che privati». I soldi c’erano, insomma. E anche sulla sede si era a buon punto, nel caso in cui Nestlé non avesse dato autorizzazione a produrre presso lo stabilimento di San Sisto. Era una delle richieste, insieme a quella di una commercializzazione da fare «preferibilmente utilizzando la rete di vendita che opera per Nestlé», che in questo modo poteva vedere arricchito il suo portafoglio prodotti. Ma anche su questo fronte, in caso di niet da Milano, ci sarebbe stata la possibilità di utilizzare canali alternativi. Il team di ex dirigenti si diceva disponibile «al confronto e alla costruzione di valore, anche secondo linee guida impostate da Nestlé» e ipotizzava di impiegare, al terzo anno di attività, «fra le 50 e le 60 unità lavorative».

I cinque ‘No’ di Nestlé Insomma, il piano c’era ed era articolato. Certo, richiedeva un minimo di collaborazione e disponibilità da parte della multinazionale, oltre a quella dei lavoratori, dei sindacati e delle istituzioni locali. Disponibilità che non è arrivata da nessuno, se non – come detto – dal Ministero dello Sviluppo Economico, che aveva accolto i dirigenti come una delle possibilità. Teresa Bellanova ci credeva e anche per questo motivo, alla fine, dopo le scaramucce di dicembre, giovedì 11 gennaio il tanto atteso incontro c’è stato. Ma l’apertura non c’è stata. Anzi, a leggere il loro comunicato, c’è stata da Nestlé chiusura totale: «No all’utilizzo del marchio Perugina, al massimo concesso per soli due anni e a titolo oneroso; no all’utilizzo di brand storici dismessi da tempo, se non a valle dell’acquisto degli stessi; no all’utilizzo degli spazi vuoti nello stabilimento di San Sisto; no all’utilizzo sinergico della forza di vendita esistente; no alla realizzazione di prodotti anche marginalmente in concorrenza a quelli Nestlé prodotti in altri siti europei».

Il vincolo sui riassorbimenti «Infine – rivelano – la costituenda società avrebbe dovuto assorbire i dipendenti in esubero individuati da Nestlé, tassativamente entro giugno 2018, con ancora tutti gli impianti da realizzare. Tutte le persone da traghettare avevano professionalità giudicate inutili per il riassetto della produzione Nestlé ma non dotate di competenze sulla lavorazione del cioccolato, provenendo da altre aree produttive dello stabilimento, quindi sarebbero state da formare»

Non ci sono le condizioni Per tutti questi motivi, «il gruppo degli ex dirigenti Perugina ha preso atto della mancanza delle condizioni di base per la prosecuzione del proprio progetto». Tutta colpa di Nestlé, quindi, che – secondo loro – ha dato risposte «che nulla hanno a che fare con la visione di una proficua partnership da sviluppare negli anni», ma piuttosto vedeva il progetto come «un potenziale concorrente». Questo è quanto. Difficile, se non impossibile, quindi, che nell’incontro di giovedì 15 al Ministero possa riemergere questa proposta. La soluzione, come si era capito da tempo, è quella di nuovi ammortizzatori per chi resterà fuori.

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