L’intervista – Nappi saluta l’Umbria ‘ferita’

Il direttore dell’ospedale da campo dell’esercito lascia dopo quattro mesi e ringrazia Perugia per l’accoglienza: «Mi sono sentito come a casa»

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di P.C.

È arrivato quando l’ospedale di Perugia viveva il momento più difficile, alle prese con ricoveri continui e con i posti letto che andavano verso la saturazione mentre le ambulanze si accalcavano all’ingresso. Mentre si attendeva lo sblocco della struttura della protezione civile finanziata da Bankitalia (tuttora in standby), serviva una soluzione tampone rapida ed efficace. Arrivò così l’ospedale da campo dell’esercito; allestito in tempi record e operativo nel giro di pochi giorni (video: l’arrivo del primo paziente). Ora il tenente colonnello Gaetano Luigi Nappi, che dopo quattro mesi ha lasciato la direzione dell’ospedale da campo al tenente colonnello Antonio Maurizio Saponaro, affida a umbriaon.it un bilancio della sua esperienza

SPECIALE CORONAVIRUS – UMBRIAON

Dottor Nappi, com’è andata questa esperienza?
«Questa è una domanda bella, che potrebbe sembrare banale o di routine, ma non lo è. Siamo arrivati in una regione che era ferita (e che purtroppo lo è ancora dopo un periodo in cui sembrava esserne uscita). Siamo stati chiamati e siamo corsi immediatamente. Alla fine è andata bene per come abbiamo svolto il nostro lavoro. Ma è andata male perché abbiamo visto tanta gente soffrire. Un malato ha bisogno di assistenza sanitaria ma anche di assistenza umana, ha bisogno di vedere un parente che gli porta una parola di conforto, magari un cioccolatino, e questo purtroppo con il Covid non è possibile».

È stata un’esperienza nuova per voi?
«Relativamente. Il nostro personale aveva già avuto a che fare con il Covid, per la maggior parte, in altri ospedali da campo (con lo stesso assetto erano stati allestiti ospedali da campo militari a Piacenza e a Crema; ndr) e la loro esperienza è stata utile alle prese con l’emergenza umbra quando siamo diventati operativi».

In che modo il vostro lavoro si è innestato nell’azione dell’ospedale civile?
«In una prima fase siamo stati alternativi. Quando siamo arrivati, ve lo ricordate, c’erano le file di ambulanze. L’ospedale scoppiava. Abbiamo fatto un’opera di decompressione per dare adeguata sistemazione ai pazienti che continuavano ad arrivare. Poi, invece, insieme alla direzione dell’ospedale, abbiamo stabilito un percorso che ha integrato l’ospedale da campo all’interno dell’azienda ospedaliera di Perugia: in virtù di ciò, i malati a media e bassa intensità venivano da noi, quelli ad alta intensità andavano nella struttura ospedaliera; anche perché qui abbiamo solo tre posti di sub-intensiva».

Che tipo di cure mettete in atto qui?
«Ossigenoterapia, cortisone, antibiotico: la tristemente classica terapia prevista per i malati anti Covid».

Seguendo le indicazioni dei medici dell’ospedale?
«C’è stato un continuo scambio di informazione, questo è ovvio. Ma quando abbiamo preso in carico i pazienti li abbiamo seguiti noi, con il personale medico dell’esercito, formulando delle terapie autonomamente, pur sulla base delle relazioni che accompagnano ciascun trasferimento».

C’è qualche storia che l’ha colpita in questi mesi?

«Abbiamo dato una grossa mano ad una paziente Covid che aveva problemi psichiatrici: l’abbiamo presa in carico e l’abbiamo fatta rinascere; poi l’abbiamo trasferita in una struttura di riabilitazione psichiatrica; sappiamo che sta molto bene ed è felice e ci fa piacere»

Decessi?

«Grazie a Dio no. Anche perché va detto che quando c’erano dei casi che si aggravavano venivano trasferiti nella terapia intensiva dell’ospedale».

I lavori di allestimento

Ha raccontato che ci sono stati tanti attestati di stima…
«Del rapporto con le istituzioni ho già detto. Ma abbiamo avuto dimostrazioni di affetto, stima, gratitudine, che ci hanno emozionato, sin dal primo giorno. Ne ricordo a decine. Dalla signora che ci porta le teglie di tagliatelle tutte le domeniche, a quella che ci ha riempito di buoni spesa per la paninoteca del figlio. E poi tanti regali: l’olio di famiglia, il vino di famiglia, salumi tipici…»

Dove alloggiate?
«In alcuni un hotel della zona, dove siamo stati ospitati come fossimo a casa. Anzi, ne approfitto per ringraziare i gestori perché non solo ci hanno trattato benissimo ma anche, da quanto ho saputo, sono venuti incontro alle forze armate dal punto di vista economico. Noi ospiti abbiamo avuto delle attenzioni ai limiti del disarmante. Per quanto mi riguarda, voglio ricordare la signora Svetlana che ci faceva le torte personalizzate: mi dicono che ora una di queste sarà chiamata “la torta del colonnello” perché ne ero particolarmente ghiotto e la facevano come piace a me».

Mi raccontano che in quattro mesi lei non è mai tornato a casa
«No, mai».

È sposato?
«No, sono single anche se non per scelta…» (sorride).

Si è ammalato qualcuno dei suoi parenti in questo periodo?
«Fortunatamente no, almeno non in questo periodo. In precedenza qualcuno sì»

Le è mai passato per la testa che, mentre lei era qui ad aiutare gli umbri, a casa poteva ammalarsi qualcuno dei suoi parenti e poteva esserci bisogno di lei? Dopotutto, è un pensiero legittimo…
«È un pensiero umano, certo, ma quando mi prendevano momenti di malinconia ho cercato di scacciarli».

Lei di dov’è?
«Sono originario di Marzano di Nola, Vallo di Lauro, provincia di Avellino, dove vivono mia madre e mio fratello con la moglie. Ma io vivo e lavoro a Roma ormai da svariati anni».

Buon ritorno a casa
«Grazie!»

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