Si ammala sul lavoro e l’azienda lo caccia: la battaglia di un 36enne

Terni – L’odissea di Gjino Ndoja finisce in tribunale. Maxi causa per ottenere reintegro e risarcimento: «Non mollo»

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Un’odissea andata avanti per anni, fra malattie – legate, secondo i periti di parte, alle mansioni lavorative svolte -, minacce di licenziamento, un trasferimento ad oltre 500 chilometri di distanza con preavviso di una settimana e quindi un licenziamento per certi versi inevitabile, dovuto al superamento del periodo di comporto: ovvero troppi giorni di malattia. È quella vissuta sulla propria pelle dal 36enne ternano Gjino Ndoja che ha impugnato i provvedimenti dell’azienda – una nota catena di bricolage, fai da te, ferramenta – di fronte al giudice del lavoro di Terni. Sin qui con alterne fortune, anche se non si rassegna: «A breve ci sarà una nuova udienza – spiega – e non intendo mollare. Perché il trattamento che ho ricevuto, da uomo, professionista e padre di una bimba piccola, è incommentabile. E lo stesso vale per chi, fra i professionisti incaricati che hanno lasciato senza parole anche i consulenti che ho nominato, ha ignorato l’evidente legame fra i miei gravi problemi di salute e le mansioni svolte nel tempo».

I primi problemi

L’assunzione del 36enne ternano risale al 2005 e le prime difficoltà si palesano sei anni dopo, nel 2011, quando viene sottoposto ad intervento chirurgico per un papilloma squamoso alle mucose nasali. Precedentemente si era occupato del taglio dei pannelli di legno, ma dal febbraio/marzo 2012 – nonostante il problema di salute – viene affidato esclusivamente a quella mansione che fa vivere in mezzo a pericolose polveri. Un primo motivo di forte attrito che, unito alla carenza di dispositivi di sicurezza sul luogo di lavoro (le mascherine FFP3 sarebbero state adottate soltanto nel 2017) – oggetto anche di un esposto – ha rappresentato l’inizio di una fase problematica, proseguita per qualche anno.

Il trasferimento a 500 chilometri in 7 giorni

Nel 2013 tuttavia Gjino Ndoja viene reinserito, previa visita medica, nell’area vendita. Ma altri problemi sono dietro l’angolo, con l’inserimento in una squadra deputata al ‘caricamento merci’ – inizialmente senza neanche la divisa – poi integrata da personale di una cooperativa esterna. Al primo problema di salute che lo aveva costretto a finire sotto i ferri, se ne aggiungono altri con il passare dei mesi. Gli stessi che, uniti alle rimostranze sulla carenza di strumenti di sicurezza disponibili, hanno poi portato al provvedimento di trasferimento in un altro punto vendita della catena, a Lodi, datato 26 luglio 2017 e da attuare il 7 agosto seguente: meno di 10 giorni di preavviso, ben al di sotto dei termini (45 giorni da contratto nazionale, 70 per chi ha familiari a carico) previsti dalla legge. Un trasferimento impugnato dallo stesso Ndoja di fronte al tribunale di Terni con un ricorso d’urgenza ‘ex 700’, ma che il giudice del lavoro non ha inteso valutare del merito essendo subentrato – nel frattempo e con un tempismo tutt’altro che casuale – il licenziamento per malattia.

Il malore e l’invalidità

Alla consegna della lettera con cui l’azienda comunicava il trasferimento a Lodi, l’operaio 36enne aveva accusato un malore tale da rendere necessario l’intervento del 118, seguito poi dalla diagnosi che aveva fatto emergere anche disturbi ansioso-depressivi proseguiti per oltre 100 giorni, con conseguente superamento del periodo di comporto. Un quadro che, aggravato dall’ernia discale, dalle sofferenze articolari, dalla sindrome del tunnel carpale bilateriale di grado severo, aveva portato al riconoscimento di una invalidità pari al 55%.

La battaglia

Quel licenziamento per malattia è stato impugnato ed ora anche di questo si parla di fronte al giudice del lavoro di Terni, con la prossima udienza fissata per il 10 giugno, nel contesto di una vicenda che umbriaOn continuerà a seguire. «Ci sono tanti elementi che devono essere portati all’attenzione del tribunale – afferma Gjino Ndoja -, come il fatto che la mia cartella sanitaria e di rischio è aggiornata fino al 2015 mentre io sono stati licenziato nel 2018. Questo vuol dire ad esempio che la mia ernia discale non è stata rilevata attraverso i controlli medici aziendali, semplicemente perché non sono stato più sottoposto a visite, nonostante anche un cambio di mansione». La richiesta è quella di essere reintegrato in azienda, oltre ad un risarcimento di circa 600 mila euro per i danni patiti: «La ritengo congrua con tutto ciò che ho dovuto subire – conclude l’operaio -. Nel tempo mi erano giunte anche delle offerte di buonuscita ma, a parte l’inadeguatezza, la mia volontà è sempre stata quella di lavorare: ho una famiglia da mantenere. La realtà è che contro le inguiustizie ci si deve battere e questa volontà da parte mia, per fortuna, non è mai venuta meno. Anche perché gli argomenti non mancano e spero che il tribunale faccia emergere tutto ciò che negli anni è rimasto nell’ombra».

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