Umbria, giovani e ‘indeterminati’ i più colpiti dalla pandemia

Elisabetta Tondini dell’AUR analizza il mercato del lavoro, le sue trasformazioni e le prospettive: «Ci saranno settori trainanti ma anche una maggiore mobilità»

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di Elisabetta Tondini
Agenzia Umbria Ricerche

La pandemia che dura da più di un anno si è riversata sul mondo del lavoro con ripercussioni disomogenee per territorio, settore e categorie sociali, per un impatto complessivamente negativo su livelli occupazionali e intensità lavorativa. A pagare le conseguenze sono stati i giovani, i contratti a termine e di apprendistato, i livelli di istruzione più bassi, le attività considerate non essenziali, con effetti asimmetrici assai rilevanti per caratteri ed entità. La pubblicazione a metà marzo dei dati Istat sul mercato del lavoro per l’anno 2020 ci permette una prima quantificazione dei principali cambiamenti occorsi nell’anno del coronavirus rispetto all’anno precedente, il tutto in attesa dell’aggiornamento – in corso – della serie storica del ricco set di informazioni derivante dalla rilevazione sulle forze lavoro che prevede, nello specifico, importanti modifiche dei criteri di definizione della condizione di occupato. Di fatto, i 356 mila e 400 occupati in Umbria nel 2020 (erano 363 mila nel 2019) restituiscono un quadro della situazione parzialmente distorto sia in termini produttivi, perché le ore lavorate sono diminuite molto più degli occupati – visti l’ampio ricorso alla Cassa integrazione guadagni e le assenze dal lavoro per interruzioni varie – con una conseguente minore generazione di reddito, sia anche di equilibrio del mercato, considerato che il blocco dei licenziamenti ha falsato naturalmente la reale domanda di lavoro. Con tutta probabilità, le analisi che seguono sottostimano dunque la reale portata dei contraccolpi sul mercato generati dall’ondata pandemica ancora in atto.

Convergenze e divergenze umbre rispetto al contesto nazionale

Il 2020 è stato segnato, in Italia e anche in Umbria, da un forte calo dell’occupazione dipendente a tempo determinato e del lavoro part time – non sufficientemente bilanciati dal lieve aumento di dipendenti a tempo indeterminato – e da una drastica contrazione della componente giovanile. C’era da aspettarselo: a essere tagliate fuori dal mercato sono state le forme contrattuali – e con esse le categorie sociali – più vulnerabili. Rispetto al panorama nazionale, la regione si caratterizza tuttavia per ulteriori fenomeni, in controtendenza, che meritano di essere sottolineati: in generale, la riduzione occupazionale ha penalizzato maggiormente gli uomini e, sul fronte femminile, ha interessato solo le donne con meno di 35 anni; in più, l’Umbria si è distinta per aumenti del lavoro autonomo maschile con contratto a tempo pieno, del lavoro dipendente maschile part time, del lavoro dipendente femminile a tempo pieno.

Drastica caduta del lavoro subordinato a termine. Numerose le differenze di genere

Dal 2019 al 2020 l’Umbria ha dunque perso quasi 6 mila e 500 occupati, con un tasso di caduta (-1,8%) che ha penalizzato di più la componente maschile (-1,9% contro -1,7%) ma che ha lasciato inalterato il tasso di femminilizzazione dell’occupazione (42%). In Italia, il calo è stato un po’ più elevato (-2,0%) e ha colpito più pesantemente le donne (-2,5% contro -1,5%). Seguendo il trend nazionale (-1,8% a fronte di -1,7%), la regione ha perso 5 mila lavoratori dipendenti, con una decurtazione più accentuata per gli uomini. Sul fronte del lavoro autonomo, diminuito anch’esso ma meno che in Italia (-1,7% contro -2,9%), la perdita è stata di oltre 1.500 occupati, praticamente tutte donne, a fronte di un ampliamento della compagine maschile. La scure della crisi si è abbattuta in maniera selettiva sul lavoro subordinato, colpendo esclusivamente i contratti a termine e in Umbria con più forza che in Italia (-17,6% e -12,8% rispettivamente): così, nel 2020, 8 mila 800 dipendenti con contratti a termine, svincolati dal blocco dei licenziamenti e per natura suscettibili di mancati rinnovi, hanno perso lavoro. Le donne sono state più penalizzate (-18,1% contro -17,2% maschile) ma la perdita di circa 4.200 dipendenti assunte con contratti temporanei è stata in parte bilanciata da un aumento di oltre 3 mila tempi indeterminati, riducendo a circa un migliaio la contrazione di unità femminili subordinate (-0,8%). Il tasso di caduta tra gli uomini (-2,8%) è stato invece l’esito di 4.500 contratti a termine in meno, parzialmente compensati da neanche 700 contratti a tempo indeterminato in più rispetto all’anno precedente. Dunque, il lavoro a tempo indeterminato è aumentato, in Umbria più che in Italia (+1,7 e +0,6% rispettivamente), nella regione molto più per le donne che per gli uomini (le 3 mila 800 unità in più sono quasi del tutto al femminile), con tassi di crescita femminili superiori a quelli italiani (+2,8% contro 0,3% nazionale).

Tempo pieno, tempo parziale e anomalie di genere

Il 2020 è stato anche un anno segnato dalla diminuzione del part time (-5,0% in Umbria, -4,6% in Italia), altra forma contrattuale particolarmente esposta a subire tagli in casi di difficoltà del mercato, con ritmi più sostenuti di quelli verificatasi nei tempi pieni (-0,9% e -1,3%). In valore assoluto, l’Umbria ha perso 3 mila 700 contratti part time e oltre 2 mila 700 a tempo pieno. Nel complesso, l’emorragia occupazionale maschile ha interessato i tempi pieni (-2,0%, a fronte del -1,3% nazionale) mentre è rimasto praticamente inalterato il numero dei part time (+0,1% in Umbria, -3,7% in Italia) che, ridottisi tra i lavoratori autonomi, sono stati recuperati sul versante del lavoro subordinato. Insomma, per gli uomini, la fuoriuscita di occupati dipendenti a tempo pieno è stata in parte tamponata dall’attivazione di contratti part time. Per le donne, al contrario, la perdita occupazionale di contratti part time è stata parzialmente attutita da un aumento di contratti a tempo pieno. Un fenomeno che risulta accentuato sul fronte del lavoro alle dipendenze: 2 mila e 700 donne con contratto part time in meno e 1 e 600 posizioni a tempo pieno in più. Un dato del tutto anomalo rispetto a un fenomeno di appannaggio tipicamente femminile (il part time nei rapporti di lavoro alle dipendenze pesa tra gli uomini del 9,7% e del 35,6% tra le donne) e in controtendenza rispetto alla contrazione dello 0,5% su base nazionale. Sul fronte del lavoro autonomo, la fuoriuscita di posizioni maschili part time (-30%, a fronte del -3,5% nazionale) è stata recuperata con un aumento dei tempi pieni, in controtendenza rispetto a quanto occorso in Italia. Il lavoro autonomo femminile scende tra i profili full time (-2,7% a fronte di -4,8% nazionale) e ancor di più tra i part time (-14,8%, contro -4,8%).

Una crisi selettiva per età

La pandemia, che da un punto di vista sanitario ha penalizzato segnatamente gli anziani, sul fronte economico-lavorativo si è abbattuta soprattutto sulle giovani generazioni. In Umbria hanno perso lavoro 6 mila e 600 giovani con meno di 35 anni – equamente ripartiti tra maschi e femmine – all’incirca tanti quanti ne sono aumentati nel frattempo tra i Neet nella stessa fascia d’età (+25% in Umbria a fronte del 5% dell’Italia). Il dato è allarmante: la diminuzione di occupati under 35 in Umbria ha superato quella degli occupati totali. In particolare, le giovani lavoratrici che hanno perso lavoro hanno superato di un quinto il calo occupazionale registrato tra le donne complessivamente. Nello specifico, l’emorragia tra i 25-34enni ha superato le 5 mila unità, un po’ più donne che uomini, per un tasso di caduta praticamente doppio rispetto a quello nazionale: per ogni 10 occupati in meno, in Umbria 8 sono giovani di questa età (meno di 4 in Italia), con pesanti ripercussioni sui tassi di occupazione, sia maschile che femminile. In questo caso, il calo delle occupate totali eguaglia quello subito dalle 25-34enni. Sempre in Umbria, l’emorragia del lavoro femminile è stata estremamente selettiva: molto forte tra le giovani, più di quanto occorso tra i coetanei regionali e le coetanee nazionali, ha risparmiato invece le donne più mature. Infatti, la fascia centrale dei 35-54enni, segnata a livello nazionale da tassi di caduta femminili più elevati della media, vede una decurtazione (di 4 mila unità) quasi tutta al maschile. Da questo punto di vista, si può pensare che l’impiego pubblico – che nella regione presenta un grado di femminilizzazione superiore a quello nazionale (61% contro 58% nel 2019) – possa aver contribuito a tamponare la crisi del mercato lavorativo laddove più presente. Ciò che il lavoro locale ha perso tra le persone mature lo ha recuperato tra i più anziani, in particolare gli ultra 64enni che, calati in Italia, in Umbria hanno guadagnato oltre mille occupati, quasi tutte donne.

Verso una nuova normalità?

Prosegue in questo modo l’invecchiamento del mercato del lavoro che, al 2020, propone un’Umbria più sbilanciata dell’Italia verso le generazioni più anziane anche in termini di partecipazione alla produzione per il mercato. Un mercato che, distorto dal ricorso alla cassa integrazione e dal blocco dei licenziamenti, si teme possa nascondere verosimilmente posti di lavoro ancora ad alto rischio di soppressione. Aspettando che gli ammortizzatori ulteriormente prorogati dal Governo Draghi servano per tamponare situazioni di ancora grave difficoltà, ci si augura che nel frattempo le forti asimmetrie settoriali provocate dallo shock da Covid possano lentamente rientrare e che possano scongiurare la fuoriuscita di altri occupati impiegati nelle attività più in crisi o in aziende che, una volta svincolate dal divieto di sciogliere rapporti di lavoro, seguendo criteri di sostenibilità potrebbero valutare l’opportunità di operare una riduzione dei propri organici. Lo scenario è in movimento: quando le misure straordinarie adottate “temporaneamente” per proteggere posti di lavoro verranno meno, il mercato dovrebbe poter contare su altre misure, di carattere più strutturale e mirato, seguendo percorsi di rilancio dell’economia. Di fatto, la domanda di lavoro sta già – più o meno timidamente – cambiando, rispondendo a necessità produttive e ad abitudini di consumo in trasformazione. Il processo (per alcuni forzato) di digitalizzazione si intensificherà, settori – quali la logistica – si potenzieranno, crescerà il fabbisogno di professioni legate alla sanità e all’assistenza sociale come se ne svilupperanno di innovative in altri ambiti, stimolate dalla domanda di nuove competenze. Su tutto, si prevede un aumento della frequenza di cambiamento del posto di lavoro, insomma una maggiore mobilità. È molto probabile che l’auspicato recupero sul fronte occupazionale avverrà dunque lungo traiettorie diverse dal passato, proiettate verso una nuova normalità che sarà, tra l’altro, quasi certamente più mutevole.

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