La svolta: «’Codice d’onore’ e soldi dietro l’omicidio di Barbara»

Terni – A quasi 12 anni dalla scomparsa della 35enne di Amelia, arrestato il marito Roberto Lo Giudice e indagato suo fratello Maurizio

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Svolta nelle indagini legate alla scomparsa di Barbara Corvi, la 35enne di Montecampano (Amelia) svanita nel nulla il 27 ottobre del 2009. Nella prima mattinata di martedì i carabinieri di Terni, su ordine del gip Simona Tordelli, hanno arrestato e condotto in carcere il marito Roberto Lo Giudice, 49 anni. L’uomo, arrestato ad Amelia, è accusato di concorso in omicidio premeditato aggravato e occultamento/soppressione di cadavere. Indagato a piede libero, per gli stessi reati, anche il fratello Maurizio Lo Giudice (45 anni). I dettagli dell’indagine sono stati illustrati in conferenza stampa dal procuratore capo di Terni, Alberto Liguori, alla presenza del comandante provinciale dei carabinieri, il comandante Davide Milano, e della comandante del nucleo investigativo, maggiore Elisabetta Spoti.

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La famiglia: «Giustizia e verità più vicine»

A parlare, per i familiari di Barbara Corvi, è l’avvocato Gaetano Vasaturo che li rappresenta: «Oggi, come ogni altro giorno da quel 27 ottobre del 2009, il loro pensiero è per Barbara. Nessuno potrà più restituirla al loro affetto ma ora sentono il conforto di una giustizia e di una verità che percepiscono più vicina. Ci tengono – aggiunge l’avvocato Vasaturo – a ringraziare di cuore il procuratore Liguori e tutti gli uomini e le donne dell’Arma dei carabinieri per la dedizione e la professionalità con cui hanno seguito e stanno seguendo questa triste vicenda».

Duplice movente

Fra le ore 16 e le 17.30 del 27 ottobre 2009: è in questa ‘finestra’ temporale che, secondo gli inquirenti, è avvenuto l’omicidio di Barbara Corvi. Per il procuratore capo Alberto Liguori, il movente è duplice: «La gelosia, segnata dalla ‘mentalità mafiosa’ che impone di lavare con il sangue ogni tradimento, oltre a ragioni economiche». In apertura di conferenza stampa Liguori ha ringraziato l’Arma di Terni, il maggiore Spoti ed anche il luogotenente Ferrante e l’ispettore capo Cardarelli – che guida la sezione di polizia giudiziaria presso la procura -, «tutti capaci di condurre un lavoro di altissimo profilo e che hanno messo in campo ogni energia».

Roberto Lo Giudice

«Mentalità mafiosa» all’origine del delitto

Dopo l’archiviazione datata 2015, Liguori, il suo staff e l’Arma dei carabinieri si sono messi a studiare, sostanzialmente da capo, l’intera vicenda. «I media e il web sono state fonti importantissime – ha detto il procuratore capo -. Abbiamo ricostruito la storia di Barbara, quella del marito Roberto Lo Giudice, il suo arrivo in Umbria dalla Calabria insieme al padre Giuseppe che, ucciso poi in un agguato mafioso nel Lazio, era ad Amelia in ‘soggiorno obbligato’. Abbiamo ricostruito il matrimonio che la famiglia di Barbara non aveva mai visto di buon occhio, le vicende e le vicissitudini personali ed economiche della coppia. E ci siamo convinti che ci sia stato un omicidio, la cui matrice non è stata ‘mafiosa’ in senso stretto, ma legata alla ‘mentalità mafiosa’. Un delitto nato e maturato in un contesto in cui la donna è un oggetto, non ha una propria autonomia, non può decidere. Ed ogni tradimento, in base al ‘codice d’onore’ della ‘ndrangheta, deve essere ‘lavato con il sangue’».

Il ‘precedente’ di Angela Costantino

Angela Costantino, madre di 4 figli, aveva 25 anni quando scomparve da Reggio Calabria. Era la moglie di Pietro Lo Giudice, fratello di Roberto e boss della ‘ndrangheta. Per quella vicenda – un omicidio per cancellare ‘l’onta’ di una relazione extraconiugale – la Corte di Cassazione nel 2013 ha confermato due condanne a 30 anni di reclusione. «Le morti di Barbara e Angela – ha detto il procuratore Liguori – sono accomunate dal movente della gelosia che, nel caso di Amelia, si interseca con la componente economica».

I depistaggi portano all’archiviazione. Ma non è finita

La vicenda investigativa si è sviluppata così su più fronti. L’analisi delle ricostruzioni precedenti, che hanno fatto emergere diversi depistaggi poi ‘smontati’ da procura e carabinieri, e l’ascolto di nuovi testimoni – compresi tre collaboratori di giustizia – che hanno consentito di ricollegare la scomparsa della 35enne amerina al marito Roberto. «I depistaggi parlavano di un allontanamento volontario di Barbara Corvi – ha spiegato Liguori -, non prima di aver ‘prosciugato’ i conti familiari vista la pesante situazione del negozio di ferramenta gestito dai due coniugi, in odore di pignoramento. In base a tale esito istruttorio, il pm nel 2015 aveva chiesto ed ottenuto l’archiviazione. Noi abbiamo cercato di studiare nuovamente l’intera vicenda, passo dopo passo, acquisendo ulteriori elementi. In questo senso anche l’autorità giudiziaria calabrese si è rivelata preziosa».

Il ruolo dei collaboratori di giustizia

Fra i testimoni, anche un collaboratore di giustizia che, sentito in terra calabra, ha affermato di aver parlato con Roberto Lo Giudice pochi giorni dopo la scomparsa di Barbara e di avergli chiesto cosa fosse accaduto: «Quell’uomo – ha detto Liguori – ha riferito che il Lo Giudice ha ammesso direttamente, a lui, di essere coinvolto nella scomparsa della moglie».

Pezzo dopo pezzo

«Che Barbara avesse una relazione extraconiugale (con tale Carlo, ndR), il marito non lo scoprì il 26 ottobre del 2009, giorno della scenata in casa in cui ruppe, guardacaso, il suo telefono cellulare spezzandolo in due, impedendole da lì in poi di comunicare ed essere ‘tracciata’. Ma lo sapeva da molto più tempo. E anche il Lo Giudice aveva, a Reggio Calabria, una relazione parallela con un’altra donna (Caterina, da cui ha avuto altri due figli, ndR)». Liguori si è poi soffermato sui depistaggi, tali da rendere plausibile per anni l’ipotesi dell’allontanamento volontario della 35enne da Amelia. Letture ora smontate dagli inquirenti: «Il computer di Barbara era stato ‘craccato’ con un programma che consentiva di manovrare quel dispositivo da remoto. Riteniamo che ciò sia accaduto anche in ordine al messaggio, inviato tramite Messenger, in cui Barbara manifestava intenti suicidi. Il giorno della scomparsa, poi, il padre di Barbara avvertì subito i carabinieri: il Lo Giudice fece lo stesso, ma solo il 30 ottobre. Due settimane dopo, il marito prosciugò conti e fondi familiari, per un totale di circa 40 mila euro, e partì alla volta di Reggio Calabria dove incontrò la sua compagna Caterina. Le carte dell’archiviazione ci dicono che fu un amore-lampo, maturato nell’arco di un giorno, con i due che partirono poi per La Spezia ma fermandosi prima ad Amelia. Dove il Lo Giudice presentò la ‘nuova’ compagna al figlio più piccolo che aveva perso la madre appena due settimane prima. Questi sono i fatti noti, che noi siamo andati a sviscerare».

Il testimone-chiave

«Abbiamo iniziato a smontare depistaggi e ricostruzioni, come quella delle due cartoline recapitate ai figli e in cui Barbara spiegava di essersene andata per cercare un po’ di pace, di avere bisogno di starsene un po’ da sola. La calligrafia, è stato accertato, non era la sua. Ma abbiamo anche sentito persone a conoscenza dei fatti che non solo non erano in contatto fra di loro, ma che non avevano neppure motivi di astio verso la famiglia Lo Giudice, stante la ‘pax’ siglata nel corso degli anni. Ebbene fra questi testimoni, ascoltati attraverso l’autorità giudiziaria di Reggio Calabria, c’è chi ha spiegato chiaramente di aver parlato con Roberto Lo Giudice e di avergli chiesto se lui c’entrasse qualcosa con la scomparsa della moglie, ricevendo una risposta affermativa».

L’ultimo pomeriggio: «Da soli in casa»

«Non nascondiamo che ci siamo dovuto confrontare anche con reticenze, nel corso del tempo, dettate dalla paura di ritorsioni. Ma siamo riusciti, pezzo dopo pezzo, comunque a capire che il giorno della scomparsa, il 27 novembre del 2009, fra le ore 16 e le 17.30 Barbara Corvi e il marito erano soli in casa. Lei non si sentiva bene, un po’ per le tensioni del periodo (la scenata in famiglia è del giorno precedente, ndR) e un po’ per ragioni fisiologiche, ‘di donne’. Da lì non c’è un testimone che confermi la ricostruzione del Lo Giudice, ovvero che Barbara avesse proposto di fare una gita, un giro in auto, durante il quale aveva chiesto di essere riaccompagnata a casa perché non si sentiva in forze. A noi risulta che l’auto dell’indagato, in quel lasso di tempo, non si sia mai mossa dalla casa familiare. Il Lo Giudice ricompare intorno alle 17.40 presso una tabaccheria. Barbara non c’era già più. Che fine ha fatto il suo corpo? C’è un’intercettazione ambientale in cui qualcuno si sfoga e dice di ritenere che sia stata sciolta nell’acido. Nel 2010, a precisa domanda di un investigatore, un uomo affermò: ‘Non perdere tempo… ha fatto la stessa fine di… E non fare domande in giro’». Tanti indizi, ritenuti convergenti da procura e gip, per un braccio di ferro giudiziario appena iniziato e che potrebbe presto coinvolgere anche altre persone. Il prossimo step è rappresentetato dall’interrogatorio di garanzia dell’arrestato, in cui spiegherà – forse – la propria versione dei fatti.


Il comunicato stampa della Procura di Terni

Di seguito la nota diffusa dalla procura di Terni: «A distanza di pochi giorni dalla commemorazione delle vittime di mafia tenutasi a Perugia, nel corso della quale è stata rievocata anche la scomparsa d Barbara Corvi, a distanza di quasi 12 anni il procuratore capo di Terni, Alberto Liguori, a seguito di riapertura delle indagini archiviate nel mese di maggio del 2015, avvalendosi del prezioso apporto investigativo del Reparto operativo dei carabinieri di Terni, ha chiesto ed ottenuto la custodia cautelare in carcere nei confronti di Roberto Lo Giudice, marito di Barbara Corvi. Trattasi di una prima lettura in chiave cautelare che, confortata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha fatto emergere un grave quadro indiziario all’indirizzo dell’indagato, trapiantato da tempo ad Amelia ma originario di Reggio Calabria. Il Lo Giudice, in base agli atti raccolti, pur non appartenendo al clan mafioso di riferimento, nella vicenda in esame sembra averne condiviso la mentalità: il tradimento deve essere lavato con il sangue».

Il doppio movente e il ‘precedente’

«Del resto, 15 anni prima la cognata della vittima Barbara Corvi, Angela Costantino, ha pagato con la vita il tradimento al marito. Ulteriore elemento significante è il mancato rinvenimento del corpo delle due donne. I misteri che avvolgevano le prime investigazioni sono stati chiariti anche grazie al contributo offerto da plurimi collaboratori di giustizia un tempo facenti parte del clan Lo Giudice, per intenderci quelli delle bombe ai giudici di Reggio Calabria del 2010. Il movente, come per Angela Costantino, è stato la gelosia, unitamente al tentativo, in parte riuscito, di spogliare dei suoi averi Barbara».

I depistaggi smentiti

Le indagini di Arma e Procura hanno portato anche a smascherare diversi depistaggi ed in particolare «la tesi dell’allontanamento volontario e il prosciugamento dei conti correnti di Barbara per garantirsi la fuga; la manipolazione del pc di Barbara per accreditare intenti suicidari il giorno prima della scomparsa; la tesi del chiarimento in casa il 27 ottobre 2009 di pomeriggio tra Barbara e il marito prima della scomparsa; le due cartoline spedite da Firenze il 5 ed il 6 novembre 2009 da Barbara ai figli; le vere ragioni della presenza di Roberto Lo Giudice a Reggio Calabria, appena 18 giorni dopo la scomparsa della moglie».

‘Scena muta’ nela giugno del 2020

«Infine – prosegue la Procura di Terni – le plurime e convergenti chiamate in reità da parte di attuali collaboratori di giustizia hanno consentito una lettura ragionata e coerente dei vari contributi istruttori, raccolti sia prima dell’archiviazione dell’inchiesta sia soprattutto dopo la riapertura delle indagini. In conclusione, dopo un attento scrutinio degli atti istruttori raccolti in precedenza e riletti anche alla luce sia dell’attività tecnica investigativa condotta, sia del contributo offerto da collaboratori di giustizia qualificati, il compendio istruttorio si è colorato di gravità indiziaria convergente verso la persona dell’attuale indagato. Prudenza e rispetto delle garanzie, tuttavia, consigliano di sottolineare che la fase in cui ci troviamo è quella cautelare, in attesa del primo vaglio che potrà eventualmente provenire dall’interrogatorio di garanzia che sarà svolto a beve e che in precedenza, nonostante l’invito esteso al Lo Giudice da libero nello scorso mese di giugno, questi, come suo diritto, non ha inteso offrire avvalendosi della facoltà di non rispondere».

«Reticenze e omertà»

«Un’inchiesta – conclude la nota di palazzo Gazzoli – condotta tra reticenze, depistaggi e comportamenti omertosi nella migliore tradizione criminale, di natura squisitamente indiziaria che attende serenamente i successivi segmenti di verifica endoprocedimentale previsti a tutela e garanzia dell’indagato, rammentando che il pubblico ministero è tenuto svolgere indagini innanzitutto in suo favore e che, al cospetto di idonea ed adeguata gravità indiziaria ed in assenza di fattiva collaborazione da parte dell’indagato, in presenza altresì di esigenze cautelari di concreto ed attuale pericolo di inquinamento probatorio e di elevata probabililtà della commissione di reati della stessa specie, non può che soddisfare con lo strumento massimo di compromissione della libertà personale quale è la custodia cautelare in carcere».

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