Francesco Zampini, talento cristallino del jazz italiano

Intervista all’eclettico chitarrista giunto al suo secondo album: «Il sogno è un tour in quintetto in tutta Europa»

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di Danilo Bazzucchi

Un nuovo grande talento nel panorama del jazz italiano, Francesco Zampini. Ha iniziato a suonare la chitarra all’età di dieci anni. Dopo il liceo, nel 2012, si è iscritto al triennio di ‘chitarra jazz’ presso il conservatorio di Firenze ‘Luigi Cherubini’, dove ha studiato con alcuni dei più noti jazzisti italiani: Umberto Fiorentino, Fabrizio Sferra e Raffaello Pareti. Nel luglio 2015 si è laureato cum laude (discutendo una tesi riguardante una trascrizione completa del disco di Martijn van Iterson ‘The Whole Bunch’), ed è stato ammesso al ‘Koninklijk Conservatorium’ di Den Haag per un corso di master. Qui ha studiato con Martijn van Iterson, Eef Albers, John Ruocco, Eric Ineke e Jarmo Hoogendijk. Si è laureato a maggio 2017. Durante la sua residenza in Olanda ha frequentato master classes con artisti di fama mondiale: Peter Bernstein, Lage Lund, Jonathan Kreisberg e Jeff Ballard. Il 6 ottobre di quest’anno ha pubblicato il secondo disco da leader ‘Unknown Path’, con un quintet di alto livello completato dal grande trombettista russo Alex Sipiagin, il pianista spagnolo Xavi Torres, il contrabbassista Michelangelo Scandroglio e il batterista Bernardo Guerra. Da anni attivo sulla scena italiana e all’estero, Francesco Zampini vanta collaborazioni, oltre con lo stesso Sipiagin, con artisti del calibro di Ben van Gelder, Darcy James Argue, Fabrizio Bosso, Emanuele Cisi, Nico Gori, Scott Hamilton, Roberto Tarenzi, Stefano ‘Cocco’ Cantini, Walter Paoli, Raffaello Pareti, Jesper Bodilsen, Giovanni Falzone, Umberto Fiorentino e Alessandro Lanzoni esibendosi in Europa, Stati Uniti e Russia. Nel 2019 è stato l’unico semifinalista italiano per il prestigioso International guitar competition, concorso promosso dall’Herbie Hancock Institute of Jazz. Anche in Italia ha ricevuto ottimi consensi, tra cui il Primo premio al Concorso nazionale per chitarristi ‘Davide Lufrano Chaves’ nel 2018 e il secondo premio come miglior solista all’interno del concorso premio ‘Chicco Bettinardi’ nel 2016.

Hai iniziato a suonare la chitarra a 10 anni, che cos’è che ti ha spinto verso questo strumento, perché la chitarra in particolare. Nella tua famiglia ci sono persone che già facevano musica o erano appassionate?

«Io sono figlio d’arte, entrambi i miei genitori sono flautisti specialmente mio padre che lo fa di professione, ed è stato sempre appassionato di musica jazz e rock. Io ho iniziato a 9 anni a suonare il flauto, poi vidi suonare Jimi Hendrix e chiesi ai miei la prima chitarra elettrica. Jimi Hendrix e Eddie Van Halen sono stati i miei primi idoli e quelli che mi hanno spinto a voler suonare la chitarra».

Nel 2015 sei andato in Olanda a fare un master, ci parli di questa esperienza, di come hai trovato l’ambiente del jazz nel paese dei tulipani e di come ti sei trovato tu?

«Dopo aver conseguito la laurea a Firenze, dove ho incontrato il mio mentore Umberto Fiorentino, sono andato in Olanda, a l’Aja, per conseguire la laurea di secondo livello e perché avevo l’opportunità di studiare con Martijn van Iterson, un grandissimo chitarrista olandese. In Olanda ho trovato dei dipartimenti di jazz enormi, sia dove ero io ma anche a Rotterdam e Amsterdam, dove si ha la possibilità di suonare, dalla mattina alla sera, con dei coetanei che hanno la stessa voglia che hai tu. E dopo aver finito di suonare a scuola, potevi fare delle jam session tutte le sere, con un confronto costante in un ambiente molto stimolante. In Olanda ho potuto scoprire il mio metodo di studio, la mia ‘anima artistica’ e che tipo di musicista volevo essere. Ci sono stato quasi tre anni, ed è stato un periodo molto intenso, dove sono cresciuto sotto tutti i punti di vista».

L’ultimo album, che è il secondo che hai fatto, ‘Unknown Path’, è senza etichetta e l’hai prodotto da solo: come mai questa scelta?

«È stata una scelta sofferta. Di solito una volta registrato il disco si inizia a cercare una etichetta, magari anche all’estero e che sia in linea con il proprio pensiero artistico, che può spingere nel modo giusto la propria musica. Il mio primo disco l’ho realizzato con una etichetta, per il secondo ho fatto un altro tipo di ragionamento nel senso che vedevo tanti artisti anche internazionali e di alto livello che autoproducevano i loro dischi e quindi mi sono buttato. In tanti mi fanno i complimenti per il coraggio, quello che mi rasserena è che il riscontro c’è stato comunque, è ovvio che se si decide di fare una cosa del genere bisogna avere prima di tutto una buona comunicazione, oltre che un buon curriculum».

Più o meno un anno fa, partecipavi come unico semifinalista italiano al prestigioso International guitar competition (ex Monk Competition), concorso promosso dall’Herbie Hancock Institute of Jazz, a Washington DC. Che ha voluto dire per te questa esperienza? Ti ha cambiato un po’ la vita?

«Sicuramente è stata una sorpresa, è il concorso più prestigioso del mondo del jazz, è stato fondato nel 1984 ed ha lanciato alcuni fra i più grandi artisti di jazz oggi conosciuti. Dalla fondazione del concorso ad oggi io sono stato uno dei quattro italiani selezionati, è stata un’esperienza straordinaria anche perché nella giuria c’erano nomi leggendari e ho potuto conoscere Dee De Bridgewater, Pat Metheny, Russel Malone, John Scofield, Stanley Jordan e Lee Ritenour».

Oltre la musica, che immagino riempirà gran parte della tua vita, hai qualcos’altro che ti piace? Degli hobby?

«Vado a correre, mi piace leggere e mi piace anche insegnare».

Ti faccio una domanda che mi è capitato di fare anche a qualche tuo collega: nel tuo lavoro e per lo strumento che suoni, ti capita di suonare da solo, in coppia, o in altre formazioni diverse. Qual’è per te quella ideale? Se c’è ovviamente.

«Questa è una bella domanda, nel primo periodo quando sono andato in Olanda avevo paura di suonare in trio, perché non mi sentivo pronto. Poi invece è diventata la mia formazione preferita, ideale ed è quella con cui ho fatto il primo disco. L’ultimo disco invece l’ho fatto con un quintetto, con il sostegno armonico del pianoforte. Risponderò cosi: se c’è il pianista bravo e che non rompe le scatole va bene in quattro altrimenti preferisco in trio».

Nell’ambiente dove vivi e lavori ti è capitato di fare amicizia con qualche tuo collega, voglio dire che hai un certo rapporto che va al di fuori della musica?

«A volte può sembrare difficile, però quando si fa appello all’umanità delle persone e questa viene fuori, viene fuori anche il meglio e si forma un legame che va oltre la musica. Quindi, io sì ho tanti carissimi amici musicisti con cui posso tranquillamente parlare anche di altre cose, oltre che di musica. Devo dire che io mi trovo molto bene con quelli della mia generazione, ma mi è capitato di suonare e frequentare musicisti più grandi di me e non ho mai avuto problemi. Poi naturalmente ci sono sempre le eccezioni».

Classica domanda finale: progetti attuali, futuri e se c’è il sogno nel cassetto.

«Durante il lockdown ho cominciato a pensare a un terzo album, perché ho scritto pezzi nuovi. Uno dei sogni nel cassetto, perché ne ho più di uno, è quello di riunire il quintetto con cui ho fatto l’ultimo disco e fare un gran tour in tutta Europa. Un altro grande sogno è quello di suonare stili diversi, e farlo per esempio con Robert Plant (ex Led Zeppelin) che da anni fa cose sue e sono bellissime, io sono un suo grande fan»-.

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