Il Capitano Ultimo al liceo ‘Angeloni’: «Ho arrestato Riina e vi dico la mia su Messina Denaro»

Terni – Intervista a Sergio De Caprio, protagonista nell’Arma e punto di riferimento per le giovani generazioni

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Riceviamo e pubblichiamo l’articolo uscito sul giornale scolastico del liceo ‘Francesco Angeloni’ relativo ad un importante evento che si è tenuto nei giorni scorsi presso l’istituto scolastico ternano.


di Sofia Fioramonti

Lo scorso 18 febbraio il liceo ‘Angeloni’ di Terni ha avuto il piacere di ospitare Sergio De Caprio, il ‘Capitano Ultimo’ che nel 1993, dopo mesi di indagini, riuscì a catturare il capo della mafia siciliana, Totò Riina, latitante da 23 anni. Ultimo, infatti, era il coordinatore del gruppo che si occupava delle indagini che portarono all’arresto del mafioso.

Emozionante il discorso di apertura del Capitano: «Sono qui perché tutte le battaglie che abbiamo combattuto, le abbiamo fatte per voi studenti, per i vostri insegnanti e per le vostre famiglie. Vi ringrazio oggi perché tutto quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto pensando a voi. Ci avete dato il coraggio, perché voi siete l’unico esercito che vogliamo e le uniche armi che accettiamo. Oggi sono qui a rispondere alle vostre domande ma non ho nulla da insegnare. Abbiate fiducia in voi stessi e nel legame che avete fra di voi, l’amicizia è una cosa immensa ed è quella che fa vincere o perdere un gruppo. Ognuno di voi ha un talento, voi siete i protagonisti di questo mondo; praticate la vostra forza, non abbiate paura della vostra età, la legalità è il potere e il diritto di autodeterminare voi stessi. Voi – ha continuato – avete il compito di portare avanti lo spirito italiano, occuparvi degli altri con generosità e con amore. Avete il diritto di poter vivere in un mondo sicuro, dove poter andare in giro senza paura di poter subire qualche violenza». E’ stata un’occasione davvero unica per gli studenti e per i docenti del liceo ‘Angeloni’ che hanno avuto la grande opportunità di porre delle interessanti domande al Capitano. Le abbiamo raccolte sotto forma di intervista.

Cosa significa cultura mafiosa? Cosa significa che anche noi ci dovremmo occupare di non essere mafiosi e di combatterla?

«Io ho la visione di un combattente. Ho visto il mondo fatto da una categoria di persone, fra cui quelle che praticano il dominio sugli altri, coloro che vogliono essere più forti degli altri, e ho visto delle persone che praticano il muto soccorso fra di loro. Per me la mafia sono le persone che praticano il dominio, in tutti i modi possibili. Credo che in questa lotta ci siano molti spettatori, tra cui voi studenti e tutte le persone a voi care. Per fare in modo che questo non succeda, è necessario farvi partecipare alla vita, alla costruzione del mondo che poi voi dovrete portare avanti».

Secondo lei, ad oggi cosa pensa l’Arma dei carabinieri del suo operato?

«Io non sono niente e non devo essere niente. Ho avuto il privilegio di combattere per il vostro bene e non c’è cosa più grande e più bella di questa».

In veste di ex carabiniere, cosa ne pensa del recente arresto di Matteo Messina Denaro?

«Da ex carabiniere sono molto felice di quello che hanno fatto i miei colleghi, sarò felice di ciò che faranno e sarò sempre accanto a loro perché lavorano per gli altri, a volte in condizioni indegne e sottopagati, considerando il fatto che un’ora di straordinario viene pagata soltanto 7 euro. Loro combattono per il bene comune, gli dobbiamo voler bene anche quando sbagliano».

Lei ha un’associazione di volontari ‘Capitano Ultimo Onlus’ in via della Tenuta della Mistica a Roma. Cosa fate e come la gestite?

«Noi come cittadini abbiamo creato una casa famiglia e ci occupiamo dei ragazzi che sono stati abbandonati dai loro genitori oppure che non possono starci perché hanno subito dei reati da parte loro. Ci occupiamo anche delle persone abbandonate dai figli e cerchiamo di dargli un tetto, un’assistenza continua sotto tutti i punti di vista. Lo facciamo senza volere nulla in cambio, alcune persone vengono nella nostra associazione e sono libere di fare una donazione con la quale noi paghiamo le tasse. Quello che rimane, lo ridistribuiamo ed un prete si occupa di dire delle preghiere nelle lingue dei nostri pazienti e con loro stessi per fargli avere un minimo di dignità. C’è un nostro amico, Giorgio, che è ricoverato in terapia intensiva perché sta male e ci hanno chiamato dall’ospedale dicendo che i suoi parenti si sono rifiutati di prendersi cura di lui. Noi siamo andati a prenderlo, gli abbiamo dato un letto, delle coperte e gli abbiamo fatto fare una doccia. L’abbandono è la cosa peggiore, reprimetelo».

Nella sua lotta, lei si è mai sentito abbandonato?

«Sì, specialmente da alcune persone che avevano il compito di difenderci. Uno dei modi che abbiamo per combattere la mafia è essere uniti, farci sentire, praticare il volontariato. Più forte è il legame e più facile è riuscire nella lotta. Chi abbandona è traditore».

Lei crede che il fenomeno mafioso, in particolare quello italiano, potrà mai del tutto arrestarsi tramite la lotta delle forze dell’ordine e della società?

«Sì, più che altro mi chiedo come mai ancora non ci siamo riusciti. Cosa aspettiamo? Noi dobbiamo spiegare a queste persone che non le vogliamo più nella nostra società perché ci siamo stancati. Dobbiamo dirgli che si devono arrendere e che non devono più lavorare. Ci vuole una rivolta sociale, dovete gridare e guidare le persone per debellare il fenomeno, il futuro è nelle vostre mani, voi giovani siete la speranza».

Quando hanno chiesto a Giovanni Falcone perché avesse scelto questa strada egli diceva: ‘Il codardo muore tutti i giorni, il coraggioso muore una volta sola’. Perché Lei ha scelto di intraprendere questa strada? Ha la stessa visione di Falcone?

«No, non mi sento di potermi paragonare a lui. Io ho fatto il mio lavoro come tanti carabinieri. Sono cresciuto in un piccolo paesino della Toscana, mio papà era un brigadiere che lavorava in questi paesi abitati da poche centinaia di persone che mi hanno cresciuto come in una comunità. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi regalava la cioccolata. Li consideravo come dei parenti, la solidarietà fra le queste persone era impressionante. Mi ricordo che c’era un uomo che dormiva in una stalla e ogni giorno c’era una signora che gli portava da mangiare come fosse un suo parente. Io vedevo questo e mi rendeva felice, gli volevo bene. Ho pensato che avrei dovuto difendere queste persone e vedevo questi pochi carabinieri che vivevano ai margini per essere imparziali, non davano confidenza alle persone. Ancora ero piccolo, ma ricordo che volevo farlo anche io e lo sono diventato».

Durante la sua carriera, ha ottenuto molte vittorie ma ha anche perso parte della sua libertà. Ne è valsa la pena?

«Ho perso come perdono tutte le persone che si donano agli altri. Ho donato me stesso, l’ho fatto per amore, non mi aspettavo nulla allora e non mi aspetto nulla neanche adesso. Sono contento di quello che ho fatto».

Quanto è importante fare bene il proprio lavoro? Lavorare bene è già una rivoluzione oppure no?

«Sì, il lavoro è inteso come completamento della personalità umana. Io sono stato fortunato perché ho avuto la possibilità di lavorare con altre persone e questo valorizza il talento di ognuno di noi. Quando si fa un lavoro e si analizza un errore tutti insieme, si ha già la soluzione per la volta successiva e si prende atto dello sbaglio che diventa per noi un motivo di crescita collettiva. Noi abbiamo bisogno che tutti partecipino all’obiettivo finale di ciò che viene fatto. La gioia più grande è quando durante il lavoro nessuno si è ferito. Dobbiamo stare bene, ci dobbiamo aiutare, dobbiamo credere nei rapporti umani e nell’umanità, cambiamo il modo di stare insieme al fine di raggiungere il bene comune».

Perché viene soprannominato ‘Capitano Ultimo’?

«Quando un carabiniere entra nei reparti che ha creato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, per mantenere la clandestinità deve trovarsi un nome di battaglia in modo che possa essere usato nelle comunicazioni radio. Da quando sono piccolo, ho sempre visto altri ragazzi che cercavano di primeggiare sugli altri e questo meccanismo, purtroppo, l’ho trovato anche all’interno dell’Arma dei carabinieri. Così ho scelto di chiamarmi ‘Ultimo’ perché volevo far capire agli altri che non competevo con loro e tutti mi prendevano in giro. Poi, però, è stato chiaro che non è il nome che determina se una persona è buona o cattiva ma quello che fa e oggi non ridono più».

Quali sono state le sue sensazioni quando ha finalmente catturato Totò Riina?

«In realtà non ho avuto molte sensazioni perché quando sei sulla strada pensi sempre a fare in modo che tutto si svolga per il meglio, senza incidenti per nessuno, sei concentrato sull’azione e non hai emozioni. Alla fine ero contento non per l’arresto ma perché l’azione si era svolta bene. Successivamente ho provato un gran senso di vuoto, come quando hai finito una partita e l’hai vinta ma pensi già alla partita successiva».

Com’è cambiata la sua vita dopo questo avvenimento?

«Sono arrivati quattro collaboratori di giustizia, in periodi successivi, che mi hanno spiegato che c’era una taglia su di me per uccidermi. Ho scelto di continuare a lavorare con i miei colleghi, quindi inizialmente non avevo la scorta, ci difendevamo tra di noi. Dopo tanti anni sono stato trasferito alla Forestale dove ho ottenuto la scorta per un breve periodo. Quando me l’hanno tolta, io e il mio avvocato abbiamo spiegato al Tar che mi serviva e me l’hanno ridata. La scorta aiuta a vedere se sei seguito, è un grande privilegio e ringrazio i miei uomini per come svolgono il loro lavoro».

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