Lavoro e disabilità: «Deistituzionalizzazione, diritto troppo spesso ignorato»

Un gruppo di genitori con figli con disabilità lancia una serie di idee

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Riceviamo e pubblichiamo un documento da parte di un gruppo di genitori con figli diversamente abili

Lavoro e disabilità. È piuttosto evidente che la legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) non basta a garantire un adeguato livello di inclusione dei lavoratori disabili nei vari contesti professionali. Sono tante le aziende che preferiscono pagare le multe piuttosto che inserire personale con disabilità. Per questo emerge la necessità di mettere in atto una serie di politiche attive specifiche finalizzate all’inclusione lavorativa di personale con disabilità.

Le persone con disabilità sono la più grande minoranza discriminata al mondo: si tratta infatti di oltre un miliardo di persone. Si stima che più del 15% della popolazione mondiale ha una ridotta capacità di interazione con l’ambiente sociale in cui vive. Ma cosa intendiamo per disabilità? È necessario riflettere sulla definizione di disabilità. Fino a pochi decenni fa, essa era considerata solo nel suo aspetto di limitazione insita nell’individuo e trattata esclusivamente come problema medico su cui intervenire individualmente.

Un paradigma applicato oggi quasi universalmente è invece il cosiddetto modello sociale della disabilità, coniato negli anni ottanta in contrapposizione al tradizionale modello medico. A suo tempo fu rivoluzionario ed è la base teorica delle definizioni più aggiornate di disabilità. Secondo il modello sociale la disabilità è il risultato di un’interazione tra il livello di limitazione individuale fisica o sensoriale o cognitiva o mentale e il contesto di vita. La disabilità è dunque in gran parte una conseguenza di fattori sociali: se il contesto è poco accessibile o inclusivo, la disabilità aumenta.

Secondo Istat sono 3,1 milioni le persone disabili in Italia, il 5,2% della popolazione italiana. A livello territoriale, percentuali più elevate di persone con disabilità si riscontrano in Umbria (8,7% della popolazione), Sardegna (7,3%) e Sicilia (6%). L’incidenza più bassa si registra in Veneto, Lombardia e Valle d’Aosta.
Se a questo numero aggiungiamo anche le persone che dichiarano di avere limitazioni non gravi, il numero totale di persone con disabilità in Italia sale a 12,8 milioni. Si parla di tipi di disabilità molto diversi tra loro, che vanno dal massimo grado di difficoltà nelle funzioni essenziali della vita quotidiana, a limitazioni molto più lievi, comprendendo anche malattie croniche come diabete, malattie del cuore, bronchite cronica, cirrosi epatica o tumore maligno, demenze senili, disturbi del comportamento.

Complessivamente, si tratta del 21,3% della popolazione italiana. Processo che si è particolarmente accelerato negli ultimi anni: basti pensare che gli alunni con disabilità nella scuola italiana sono passati da poco più di 200 mila nell’anno scolastico 2009/2010 a oltre 272 mila nell’anno scolastico 2017/2018. Anche gli insegnanti per il sostegno sono significativamente aumentati: da 89 mila a 156 mila.

Pensiamo all’impatto che questa realtà ha sulla vita sociale e possiamo renderci conto che sta diventando un’emergenza sociale! La disabilità in Italia costituisce ancora largamente un ostacolo per accedere alle tappe fondamentali di una vita considerata ‘normale’, tutti obiettivi sanciti come diritti dalla Costituzione: il lavoro, l’istruzione, la mobilità e la libera circolazione ed utilizzo dei luoghi pubblici. Dalle statistiche emerge una popolazione disabile marginalizzata, che vive per molti versi un vero e proprio mondo a parte a cui sono negati vari aspetti della quotidianità, nonostante in alcuni ambiti, soprattutto l’istruzione, si registri qualche miglioramento negli ultimi anni.

La situazione è avallata anche da vari richiami e sanzioni internazionali: il 4 luglio 2013 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha condannato l’Italia per non aver applicato in maniera adeguata i principi Ue in materia di diritto al lavoro per le persone disabili, e Bruxelles ha anche stigmatizzato l’inaccessibilità dei mezzi pubblici inviando l’8 febbraio 2014 due lettere di messa in mora. Risulta sempre più urgente quindi agire sulle cause strutturali delle diseguaglianze, creando le condizioni per cui le persone disabili abbiano la possibilità di esercitare i propri diritti di cittadini.

Siamo un gruppo di genitori ‘attivi’ che sta cercando di sensibilizzare la cittadinanza verso una cultura dell’inclusione ed il superamento dell’assistenzialismo. Il più delle volte, quando media e politica affrontano il tema della disabilità, pongono l’accento su due aspetti, spesso contrapposti. Da un lato, l’assistenzialismo associato al pietismo (‘Poverini, bisogna aiutarli!’); dall’altro, quella che possiamo chiamare, la ‘retorica dell’eroe’, che porta a descrivere e rappresentare le persone con disabilità come necessariamente forti e piene di volontà, un “esempio” per tutti. Niente di male, in questo, a volte ci sono condizioni nelle quali l’assistenza è un requisito indispensabile e, quanto al secondo punto, è spesso vero che, per affrontare una disabilità, è necessario trovare in sé risorse anche caratteriali non indifferenti, pensiamo per esempio agli atleti paralimpici. Però proviamo a guardare le cose da un punto di vista diverso.

Fatti salvi i casi in cui la condizione di disabilità è tale da non consentire alla persona di provvedere a se stessa e alle proprie necessità primarie, come lavorare e avere una vita sociale, perché non porre l’accento sulla creazione di condizioni favorevoli all’autonomia delle persone con disabilità? In fondo, è proprio questo il senso della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità: porre l’accento sulle persone, più che sulle loro condizioni di disabilità. Una delle difficoltà maggiori nell’affrontare il tema della disabilità è proprio il fatto che non esiste una disabilità, ma tante disabilità e anche persone con disabilità simili possono avere esigenze molto diverse tra loro.

Quindi ben vengano le strutture che assistono le persone non più autonome o non autosufficienti, anzi non ve ne sono ancora a sufficienza, soprattutto se pensiamo che l’età media nel nostro paese si sta alzando ed è risaputo che, spesso, vecchiaia e disabilità sono associate. Però questo non è sufficiente a dire che ‘si è affrontato il problema della disabilità’. Una larghissima fetta dei 4 milioni e più di persone con disabilità è costituita da individui che, con un minimo ‘supporto’, sono perfettamente in grado di essere autonomi, produttivi, membri attivi della società e non semplicemente ‘pesi morti’ o ‘problemi’ da risolvere, nascondendoli in strutture ‘dedicate’. Facciamo in modo che siano date loro le giuste opportunità..!

In questo momento abbiamo la fortuna di avere sul territorio ternano lo Chef Marco Mattetti (di origine ternana) che ha contributo alla formazione di personale con disabilità cognitiva e ha avviato numerose tipologie di start-up nel settore food, nella provincia di Piacenza e zone limitrofe. Tutte le start-up avviate sono tuttora attive e godono di ottima fama, come ad esempio Pizzaut a Milano. Ogni start-up (impresa sociale) è composta da team di personale con varie tipologie di disabilità cognitiva e retribuisce pienamente con regolare rapporto di lavoro dipendente tutti i ragazzi, oltre a reinvestire gli utili per avviare nuove start-up, in modo da creare una rete di imprese sociali collegate sinergicamente. Questa è solo una delle soluzioni che potrebbe contribuire al superamento del concetto di assistenzialismo, troppo spesso associato al tema della disabilità. Gli esempi di start-up sopra descritte producono utili e pagano stipendi pieni a tutti i dipendenti con disabilità, non perché qualcuno fa beneficienza per loro, ma perché producono prodotti apprezzati e di alta qualità.

Idee innovative e proposte. Per la maggior parte dei ragazzi la fine della scuola superiore coincide con l’inizio dell’università oppure di altri percorsi di formazione professionale o academy finalizzate a facilitare l’inserimento professionale. Per i ragazzi con disabilità cognitiva/disturbi dell’attenzione – apprendimento – problemi relazionali, ecc. non esiste nessuna possibilità di scelta. Si tratta molto spesso di ragazzi che hanno lieve deficit cognitivo o relazionale, che in sostanza hanno alto potenziale di sviluppo e miglioramento, ma che lasciati nella solitudine delle mura domestiche, regrediscono e assumono atteggiamenti di maggiore chiusura e problematicità.

Le famiglie sono lasciate completamente sole alla ricerca di alternative valide e contesti educativi, spesso l’unica soluzione sembra essere quella dei centri diurni o strutture semiresidenziali, che hanno caratteristiche assistenziali più che evolutive. La nostra visione è quella di proporre una via evolutiva, attraverso la realizzazione di attività di orientamento mirato ed individualizzato, volto alla scoperta dei talenti e delle potenzialità del singolo. L’orientamento è una tappa fondamentale e rientra nel progetto di vita, parte integrante del Pei (piano educativo individualizzato). La norma parla di orientamento fin dalla prima infanzia.

Un buon orientamento soprattutto alla fine della scuola superiore deve tener conto delle possibilità e delle difficoltà dell’alunno, deve valutare il grado di autonomia e gli interessi/predisposizioni, ma soprattutto deve guardare all’individuazione di percorsi formativi specifici, molto concreti, caratterizzati da più dell’80% delle ore di training e dal 20% di attività di accompagnamento al lavoro (On The Job). Ipotizziamo Corsi Post Scolastici della durata di 1-2 oppure 3 anni (in base alla tipologia di corso), che potrebbero essere ospitati dagli stessi Istituti Scolastici di grado superiore o da Enti Formativi specifici.

Unica prerogativa è progettare corsi professionali nel settore in cui c’è richiesta di personale o potenziale di mercato, condizione base per pensare anche all’attivazione di start-up di imprese sociali, con il supporto di incubatori di imprese e di finanziamenti agevolati o a fondo perduto. Numerosi esempi di start-up di imprese sociali, con staff composto da personale disabile, possiamo trovarle nella regione della Lombardia ed Emilia Romagna.

Alcuni esempi di Corsi Post Scolastici potrebbero essere i seguenti:
-Corso Professionale per Aiuto Cucina – Panificazione – Pasticceria – Pasta all’uovo – Conserve e Preparati ‘pronti a cuocere’ ecc.
-Corso Professionale Aiuto Parrucchieri – Cura della Persona (manicure/pedicure, massaggi, ecc)
-Corso Professionale Pet Sitter, tolettatura e cura degli animali.
-Corso Professionale Apicoltura – Bachi da Seta – Allevamento animali da cortile, ecc.
-Corso Professionale di Permacultura – Pratiche Agricole e Giardinaggio.

Alternanza scuola lavoro.  L’idea è quella di mettere in atto una serie di politiche attive volte a facilitare il contatto tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro, dedicate in maniera specifica alla disabilità. Attualmente assistiamo a rare esperienze di alternanza scuola-lavoro, molto spesso ritenute negative dagli stessi docenti o dalle aziende, in mancanza di figure di accompagnamento o tutor. La proposta è quella di introdurre la figura di job coach o tutor dedicati all’inclusione ed al consolidamento di competenze professionali nello specifico contesto aziendale, ad personam, già durante l’esperienza di Alternanza Scuola Lavoro.
Questo tema è di fondamentale importanza per garantire il successo dell’esperienza professionale e l’inclusione nell’organico aziendale ed è anche una delle strategie nelle politiche attive per l’inclusione (descritta sotto).

Politiche attive per l’inclusione

È piuttosto evidente che la legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) non basta a garantire un adeguato livello di inclusione dei lavoratori disabili nei vari contesti professionali. Sono tante le aziende che preferiscono pagare le multe piuttosto che inserire personale con disabilità. Per questo emerge la necessità di mettere in atto una serie di politiche attive specifiche finalizzate all’inclusione lavorativa di personale con disabilità. È stato messo in atto nella provincia di Lecco, si chiamano ‘adozioni a distanza’ e servono per aggirare gli esoneri previsti dalla legge 68/99.

L’azienda che non può inserire un lavoratore disabile, può sostenerlo in un altro contesto lavorativo con una quota di 6.500 euro l’anno. L’azienda ‘ospitante’ invece beneficerà di un contributo economico per il tempo dedicato alla persona disabile e agli operatori che lo seguono. Da parte sua il servizio provinciale sosterrà l’inserimento attraverso il supporto di un tutor e l’erogazione di una Borsa Lavoro in favore della persona disabile. Nella provincia di Lecco, dopo l’accordo con le rappresentanze sindacali e imprenditoriali e l’approvazione della Commissione Unica Provinciale, l’iniziativa ha acquisito una veste normativa attraverso una specifica delibera del Consiglio Provinciale. Fino a questo momento sono 396 le “adozioni” che sono state attivate: 80 di queste sono sfociate in un regolare rapporto di lavoro.

Il job coach attraverso un’analisi del contesto aziendale, individua le problematiche da risolvere e programma le azioni da intraprendere in un percorso individuale, condiviso con il lavoratore disabile e con i responsabili aziendali, volto all’integrazione e alla stabilità dell’inserimento nel tempo. La figura del Job Coach è già stata messa in atto con successo da aziende come Auticon SpA, all’interno della quale tutti i consulenti IT appartengono allo spettro autistico. In questa azienda è ormai consolidata l’inclusione di personale affetto da sindrome di Asperger (spettro autistico) con il supporto del Job Coach che li assiste a livello relazionale. Questo modello migliora le condizioni economiche e sociali della comunità autistica con carriere di qualità, sbloccando opportunità e dando forza alle aziende clienti attraverso formazione sulla neurodiversità e servizi di consulenza. In questo contesto aziendale i dipendenti autistici costruiscono carriere a lungo termine nella tecnologia, scoprendo l’autonomia personale e migliorando l’autostima.

Start-up a vocazione sociale. È possibile pensare all’avviamento di imprese sociali negli ambiti in cui vengono svolti i Corsi Post Scolastici. Esistono interessanti esempi di successo nelle regioni della Lombardia ed Emilia Romagna, dove al termine del corso di formazione specifico, consolidato da un periodo di affiancamento ‘On the job’, viene avviata la start-up. In questo momento abbiamo la fortuna di avere sul territorio ternano lo Chef Marco Mattetti (di origine ternana) che ha contributo alla formazione di personale con disabilità cognitiva e ha avviato numerose tipologie di start-up nel settore food, nella provincia di Piacenza e zone limitrofe. Tutte le start-up avviate sono tuttora attive e godono di ottima fama, come ad esempio Pizzaut a Milano. Ogni start-up (impresa sociale) è composta da team di personale con varie tipologie di disabilità cognitiva e retribuisce pienamente con regolare rapporto di lavoro dipendente tutti i ragazzi, oltre a reinvestire gli utili per avviare nuove start-up, in modo da creare una rete di imprese sociali collegate sinergicamente.

Marchio equo ed inclusivo. La nostra proposta è quella di creare un marchio unico che possa identificare tutti i prodotti derivanti da imprese sociali che hanno in staff almeno l’80% di personale disabile, sullo stile del marchio ‘equo e solidale’. Il commercio ‘equo e inclusivo’ è una forma di commercio che ha lo scopo di garantire al produttore e ai suoi dipendenti, un prezzo giusto, assicurando soprattutto inclusione nel mondo del lavoro di categorie fragili e tutela dei diritti umani fondamentali. Il marchio diventa un elemento distintivo per tutte le aziende che mettono in pratica politiche attive per l’inclusione e allo stesso tempo permette al consumatore finale di poter scegliere in maniera più consapevole il prodotto che deriva dal lavoro di persone disabili.

Dopo di noi. Per affrontare in maniera esaustiva il tema della disabilità, è importante pensare anche al futuro e al momento in cui verranno a mancare le figure genitoriali che si prendono cura di loro. Abbiamo già evidenziato come le persona con disabilità, in particolare lieve o media, vengono seguite durante l’infanzia e la giovinezza attraverso l’integrazione scolastica, sviluppando capacità e autonomie, le quali però spesso non vengono valorizzate nell’età adulta, in quanto l’offerta di servizi per le persone adulte con disabilità cognitiva è molto limitata e non vi sono neanche servizi per l’autonomia abitativa.

Un giovane con disabilità, infatti, in assenza di un’adeguata assistenza può andare incontro a problemi seri. Due sono in particolare i rischi fra loro strettamente collegati:
-da un lato, la persona non sviluppa e implementa le competenze acquisite, sulle quali i servizi pubblici hanno fortemente investito nella prima parte della vita;
-dall’altro lato, non è preparata al momento in cui la propria famiglia non sarà più in grado di assisterla, e sarà obbligata a vivere in strutture per persone con grave disabilità, ovviamente inadatte alle sue esigenze. La legge 112/2016 denominata ‘Dopo di Noi’ nasce con lo scopo di promuovere una nuova esperienza abitativa, che sappia unire la dimensione fisica a quella relazionale, in modo da migliorare la qualità della vita dei soggetti coinvolti, contrastando le diverse forme di solitudine.

La peculiarità della nostra proposta è una forma di abitare in co-housing che prevede la presenza di spazi ad uso dei nuclei (gli appartamenti) ma anche di aree e servizi in comune che favoriscono l’inclusione e facilitano forme di collaborazione e mutuo aiuto tra residenti, in una comunità abitativa eterogenea, cioè composta da persone di diverse età e situazioni sociali, disposti a co-abitare, condividere spazi comuni e vivere una vicinanza aperta e rispettosa con i ragazzi disabili. Si tratta di uno stile di ‘abitare condiviso e collaborativo’, di cui esistono dei virtuosi esempi in Germania e Olanda, ma da qualche anno anche in Italia, per esempio ad Empoli (Freedom Condominio Solidale ) che soddisfano simultaneamente più istanze: rispondere ai bisogni contingenti (come quello di una casa ad un costo sostenibile) nonché favorire l’instaurazione di relazioni virtuose e di comunità solidali e collaboranti in maniera inclusiva.

I destinatari del progetto sono disabili e non, sia singoli, che coppie con o senza figli e nuclei monoparentali, che intendano prendere in affitto un alloggio partecipando attivamente alla vita della comunità in cui vivono, condividendo con gli altri residenti la gestione degli spazi comuni e realizzando attività tese al miglioramento della qualità della vita. Oltre alle aree comuni con destinazione d’uso definita (come lavanderia e cucina) ve ne sono altre polivalenti, la cui destinazione d’uso sarà decisa dal gruppo dei futuri abitanti. Eventi pubblici (tipo ‘scambio dei saperi’, ‘corso di cucito’, feste stagionali, ecc.) consentono lo scambio anche con il quartiere, dando forma all’inclusione in maniera fisiologica.

Questa soluzione rimette al centro un diritto fondamentale troppo spesso ignorato: quello alla de-istituzionalizzazione delle persone con disabilità, garantendo loro una cittadinanza piena e il più possibile indipendente, in un appartamento da soli, anziché in istituti spersonalizzati. Ecco perché è importante investire nell’assistenza domiciliare attraverso progetti di autonomia e di co-housing sociale, affinchè si diffonda la giusta idea che i disabili possono e devono costruirsi il loro futuro in maniera staccata dalla famiglia di origine, qualora lo desiderino, esattamente come chiunque altro.

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