Perugina, a San Sisto sono i giorni dell’addio

Tre giorni per far firmare i fuoriusciti. Uno per ogni sigla sindacale. Fuori dal 1° luglio. Mille euro di ‘mancia’. La tristezza degli operai: «In pratica è un licenziamento»

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di P.C.

«Alla fine, inutile girarci attorno, anche se non lo chiamano così, si tratta di un licenziamento collettivo»: amaro, amarissimo, il commento che arriva dagli operai che negli ultimi tre giorni sono stati chiamati a San Sisto per firmare la fuoriuscita volontaria. E non hanno tutti i torti. Il documento che viene loro sottoposto si chiama ‘Verbale di conciliazione’, ma già al terzo paragrafo parla chiaramente di «accettazione del licenziamento». Caduta anche l’ipocrisia terminologica.

TUTTE LE TAPPE DELLA VICENDA PERUGINA – ARCHIVIO UMBRIAON

Operai ai cancelli di San Sisto

Le convocazioni Sono stati divisi per sigla sindacale: lunedì mattina gli iscritti alla Cgil, martedì quelli della Cisl, mercoledì pomeriggio, infine, quelli della Uil e i non sindacalizzati. Nella conferenza stampa di presentazione dell’accordo si parlava di 146 fuoriuscite ‘volontarie’, ma nel verbale di conciliazione è scritto che la procedura di riduzione del personale riguarda 180 lavoratori e che queste sarebbero le cifre contenute anche nell’accordo poi sottoscritto in via definitiva il 23 maggio in Confindustria con i sindacati. A prescindere dal balletto di cifre (che ha contraddistinto questa vertenza fin dalle prime battute), il dato di fatto è che da giovedì 7 giugno San Sisto sarà già più ‘leggera’ anche se poi formalmente i contratti scadranno il 30 giugno.

Buonuscita A titolo di incentivazione all’esodo, gli ex full time prendono 60 mila euro lordi di buonuscita, gli ex part time 45 mila e 500. In più, mille euro di ‘mancia’ pro bono pacis, a titolo di «transazione e conciliazione generale e novativa di ogni e qualsiasi eventuale pretesa in ogni modo inerente l’intercorso rapporto di lavoro, il suo svolgimento e la sua cessazione». Un modo per dire: ‘non farti più sentire’. Oppure, per citare Totò e Peppino e la loro celeberrima lettera: «Senza nulla a pretendere». Punto, punto e virgola, punto esclamativo. (Potrebbe sembrare una battuta, ma la formula del «nulla a pretendere» ricorre per ben quattro volte nel verbale; ndr).

Scoramento I soldi arriveranno insieme alle competenze di fine rapporto, con il cedolino di luglio 2018. Forse anche per questo, all’uscita della fabbrica, in pochi hanno voglia di parlare e quasi nessuno vuole comparire pubblicamente. Ci si sfoga, più che altro. In molti casi con gli occhi lucidi e la testa bassa. In maggioranza sono donne, che scelgono di tornare a fare le casalinghe. Ma ci sono anche molti uomini. In un impeto di rabbia, qualcuno sussurra un «non finisce qua», ma tutti sanno che in realtà è già finita da un pezzo. Anche perché nelle tre pagine del verbale si ripete spesso che il lavoratore accetta tutte le condizioni e rinuncia a qualsiasi tentativo di rivalsa: senza nulla a pretendere, appunto.

Le rinunce Firmando, il fuoriuscito dichiara che Nestlé ha «correttamente sempre adempiuto ad ogni obbligazione, tanto di legge che contrattuale, sia nei rapporti fra le parti, sia adempiendo agli obblighi di comunicazione, pagamento o altro, nei confronti di enti o terzi e rinuncia «con piena consapevolezza, definitivamente ed irrevocabilmente» a qualsivoglia rivendicazione o azioni collegate al rapporto di lavoro, al suo svolgimento ed alla sua risoluzione, in particolare per l’inquadramento contrattuale, ammontare retributivo, emolumenti, gratifiche, premi, incentivi, bonus, ferie, scatti, straordinari, notturni, domenicali, benefit… eccetera eccetera… ivi compreso «l’eventuale presunto danno patrimoniale, biologico, morale, esistenziale, alla professionalità, alla salute, all’integrità psicofisica, all’immagine, alla vita di relazione, alla riservatezza». Insomma: niente.

Le alternative Al di là delle cifre ballerine (con tutte le formule contrattuali e tutte le modifiche intercorse in questi due anni ci vorrebbe un libro per riportarle tutte), fin dalla chiusura dell’accordo ha colpito l’alto numero di lavoratori che alla fine hanno scelto l’uscita volontaria, rinunciando persino all’ipotesi part-time che consentiva di rimanere a tempo indeterminato. «Il part-time? Lasciamo stare – commenta uno di loro – non mi va di rientrare in una azienda in quel modo, preferisco andar via». E vanno via davvero. Un po’ per non far vedere gli occhi lucidi, un po’ per far sì che il distacco sia il più indolore possibile.

Poca fiducia nei ricollocamenti Da oggi comincia una nuova vita. Come, non si sa. «Perché con 60 mila euro a stento ci campi 2-3 anni e se vuoi provare a reinvestirli non ci apri nemmeno una piadineria». E allora perché non accettare un posto di lavoro all’esterno? «Le garanzie erano minime, con i 30 mila euro di incentivo che sarebbero andati all’azienda, in pratica, si sarebbe pagato il nostro stipendio nel periodo di salvaguardia, poi addio. A questo punto, i 30 mila euro me li tengo io».

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