Terni, ‘No inceneritori’: «Difendiamo la città»

Una lettera aperta del comitato: «Fermate la privatizzazione di Asm. Non siamo territorio di servizio per la metropoli di Roma»

Condividi questo articolo su

del comitato ‘No inceneritori Terni’

Questa lettera è un invito a riflettere. È un invito a fermare questa corsa sfrenata verso la privatizzazione di Asm, a partire già dalla delibera per la ‘razionalizzazione’ delle partecipate che la giunta Latini vuole presentare nei giorni tra Natale e Capodanno. Ma è anche un invito alla città a riflettere sulla necessità che i servizi essenziali come quelli svolti fino ad oggi da Asm restino in alcuni casi, tornino in altri, in mano totalmente pubblica.

Malgrado la legge Madia abbia ulteriormente spinto di fatto verso una privatizzazione dei servizi, sappiamo che non vi è alcun obbligo cogente. La stessa normativa europea non vieta affidamenti diretti a società pubbliche e percorsi di ripubblicizzazione sono attivi in tutta Europa: Parigi e Berlino nell’idrico, tra gli esempi più rilevanti. Allora perché questa fretta? Perché invece di correre non iniziamo a costruire un processo di riconquista del controllo pubblico? L’esperienza negativa del Servizio idrico è sotto gli occhi di tutti, non solo dei ternani, ma anche del resto dei sindaci dell’ambito che in questi giorni hanno dato un segnale chiaro e apparentemente ostile al socio privato Acea.

Nel frattempo poi, in Italia, si moltiplicano esperienze di società o consorzi interamente pubblici che in quanto ad efficienza dei servizi non hanno nulla da invidiare ad altri. Una controtendenza reale, concreta, oggettiva alla vulgata che spinge invece verso ‘economie di scala’, ‘industrializzazione dei processi’, aggregazioni e quotazioni. Parliamo di Napoli, Treviso, Forlì-Cesena, solo per fare alcuni esempi. È questo il modello di gestione dei beni comuni che abbiamo in mente.

Lasciamo allora da parte la retorica mercatista che ha trasformato servizi essenziali in merce, con rincari delle tariffe e diminuzione degli investimenti in infrastrutture. Perché la differenza di fondo tra ‘gestire’ e ‘vendere’ un servizio sta proprio nell’importanza che si da al mantenimento in buona salute delle infrastrutture su cui passa la materia prima, cosa che invece vediamo andare in senso opposto: nel comune di Terni ci si perde per strada il 47% dell’acqua potabile.

Ci chiediamo come sia possibile, che una impresa che vende acqua, ne butti via quasi la metà; se sia normale costruire un nuovo acquedotto, per altro senza acqua, invece di riparare quello esistente; qual è la logica perversa di questo meccanismo? Dove sta il guadagno? Nell’affido diretto dei lavori al socio privato? E infine, quale vantaggio hanno avuto Terni, i cittadini, l’Asm, dalla presenza di Severn Trent e Acea nel Serivizio idrico in questi quasi venti anni?

Perché in fondo, la vera domanda che ci poniamo, e che rivolgiamo a tutti è molto semplice: quale potrà mai essere dunque il vantaggio per Terni una volta che avrà ceduto il controllo della sua azienda pubblica ad Acea? In che modo gli attuali amministratori pensano davvero di poter incidere sulle scelte gestionali di una società mista, il cui cervello si trova tra Parigi dove ha sede il gruppo Suez che detiene il 23% del capitale, via Barberini a Roma in cui sta il 5% detenuto da Franco Caltagirone e il Campidoglio, che con il suo 51% non ha mai contato granché?

Sia sufficiente osservare la situazione di emergenza rifiuti della capitale e come, appunto, i suoi riflessi investano concretamente non il comune o la provincia romana, ma direttamente anche il nostro territorio, vista la posizione strategica della discarica di Orvieto e l’inceneritore di Terni che ha chiesto di bruciare rifiuti urbani (entrambi di Acea). Come è possibile infatti che insieme ad Ama, Acea non sia stata in passato, e non sia ancora oggi, in grado di risolvere il problema della gestione dei rifiuti post raccolta a Roma? Non è curioso il fatto che la stessa non abbia impianti all’interno del territorio comunale ma sparsi tra tre regioni? Non è curioso che la sua discarica più grande sia ad Orvieto, i suoi due inceneritori siano uno a San Vittore del Lazio e uno nella nostra ‘Conca’; che sia interessata al biodigestore di Nera Montoro e nel frattempo abbia depositato, cosa di un paio di mesi fa, un progetto per un impianto di smaltimento dell’umido per decine di migliaia di tonnellate non a Roma, non nell’area metropolitana, bensì a Chiusi, in Toscana? Questo 51% pubblico allora a chi serve?

La risposta è semplice: una multiutility quotata in borsa, anche se con parte del capitale pubblico, risponde esclusivamente al mercato e non al territorio. E se nel dibattito pubblico nostrano si rinunciasse all’ipocrisia dei falsi ‘distinguo’, come anni addietro quel ‘sì al socio privato ma solo se questo è a maggioranza pubblica’ (come se chissà quali garanzie portasse), davvero allora potremmo come città riscattare la reale possibilità di autodeterminarci. Forti di una infrastruttura strategica ancora pubblica e della rinnovata possibilità di rilanciare la Gestione pubblica senza i diktat del mercato.

Perché diciamocelo, o una società è interamente pubblica e risponde unicamente al mandato di gestione del servizio, oppure, anche con dentro una piccola partecipazione privata, questa dovrà comunque rispondere alle regole del mercato: fare utili e distribuire dividendi. Non può che essere così, perché un imprenditore non investe, giustamente dal proprio punto di vista, per un interesse collettivo. Le grandi quattro multiutility italiane, pur avendo avuto origine da un’aggregazione di comuni e società pubbliche, negli anni hanno ampiamente modificato la loro pianificazione e identità, andando verso un modello tipicamente privato, con la produzione di business plan proiettati in uno spazio geografico a geometria variabile, che non tiene conto dei confini regionali, provinciali o comunali. Nel caso di specie è evidente come Acea stia nei fatti ridisegnando una sua mappa, che copre il centro-Italia, in cui individua territori e costruisce strutture di servizio connesse all’area metropolitana di Roma. In dialogo univoco con la metropoli, ma senza alcun ragionamento col territorio in cui si insedia. Quale il vantaggio di avere un centro decisionale altrove che ci considera ‘struttura di servizio’, territorio da utilizzare e da cui estrarre utili, per altro senza nemmeno reali ricadute in termini lavorativi?

E allora, perché non difendiamo la nostra città, proprio partendo da qui? Perché non ripensare a un territorio e ai suoi servizi davvero vicini ai cittadini, che li riconosca come diritti, puntando sulla qualità e sulla sostenibilità? Fermiamo la privatizzazione di Asm e lavoriamo ad una prima aggregazione dei comuni del vecchio ambito. Lasciamo che Perugia risolva il nodo Gesenu senza che a farsene carico sia Asm e puntiamo ad una progressiva aggregazione solo con le società interamente pubbliche. La necessità del piano di rientro non può giustificare un’operazione che vuole fare cassa ‘tutta e subito’, se questa rappresenta la messa in mora definitiva della reale possibilità di decidere, pianificare, sviluppare, innovare la gestione di servizi e beni comuni.

Condividi questo articolo su
Condividi questo articolo su

Ultimi 30 articoli