Terni, omicidio Bellini: decisivo l’ultimo ‘no’

All’origine del delitto, per i giudici dell’appello c’è la gelosia dell’omicida – Andriy Halan – per l’ex compagna che frequentava la vittima

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Depositate, dalla Corte d’assise d’appello di Perugia, le motivazioni della sentenza con cui lo scorso 18 ottobre ha confermato i 30 anni di reclusione già inflitti in primo grado dal tribunale di Terni al 45enne ucraino Andriy Halan, ritenuto l’autore dell’omicidio del 53enne ternano Sandro Bellini, ucciso nel maggio del 2016. L’uomo era stato arrestato a seguito delle indagini condotte dai carabinieri di Terni.

Gli avvocati Mattiangeli e Capaldini

Eccezione respinta In quell’occasione la Corte, presieduta da Giancarlo Massei con il collega Fabio Massimo Falfari consigliere, aveva respinto la contestazione relativa alle modifiche del capo di imputazione operate dal pm Tullio Cicoria nel corso della deposizione del medico legale Sara Gioia. Quest’ultima, attraverso l’autopsia, aveva accertato che il termoidraulico ternano era stato assassinato con numerosi colpi alla testa, sferrati con un oggetto pesante. In aula, durante l’escussione della dottoressa, il magistrato aveva contestato le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e dei motivi abietti e futili, oltre al reato di occultamento di cadavere.

Il motivo Secondo i giudici dell’appello «la modifica dell’imputazione è intervenuta in sede di giudizio abbreviato condizionato e la stessa è avvenuta previa contestazione all’imputato presente. Nessuna compromissione del diritto di difesa si è verificata e in sede di discussione, la difesa ha argomentato e discusso anche in ordine alle modifiche dell’imputazione».

Il giudice Massimo Zanetti (foto Mirimao)

Nel merito dei fatti, i legali difensori di Andriy Halan – gli avvocati Francesco Mattiangeli e Bruno Capaldini del foro di Terni – sulla base di quanto ripetutamente riferito dal proprio assistito, avevano sostenuto come non fosse stato lui ad uccidere il 53enne, bensì due stranieri ‘ingaggiati’ dallo stesso presso un bar di Terni – compenso pattuito, 1.500 euro – con il solo scopo di minacciare e intimorire il Bellini, reo di frequentare l’ex compagna dell’ucraino.

«Volontà di uccidere» Una lettura che la corte ha rigettato, come già aveva fatto il giudice Massimo Zanetti nell’ambito del processo di primo grado datato 23 febbraio 2017: «Le indagini genetiche e dattiloscopiche – si legge nelle motivazioni della Corte d’assise d’appello – non hanno evidenziato nell’auto del Bellini tracce riconducibili a persone diverse dalla vittima e dall’attuale imputato; l’Halan, inoltre, non avrebbe avuto la necessità di assoldare altri per minacciare, pagando altresì una somma non irrisoria. L’imputato, infine, non ha fornito alcun significativo elemento per consentire di identificare i due rumeni. Ora – proseguono i giudici – la violenza e la reiterazione dei colpi sulla medesima vitale parte del corpo (il cranio, ndR) e l’uso di uno strumento dotato di un discreto peso specifico, evidenziando la finalità di morte perseguita fin dall’inizio dell’episodio, si presentano del tutto incompatibili con quell’incarico di minaccia che l’appellante sostiene aver dato ai due stranieri».

Andriy Halan durante il processo a Terni

Nessuna premeditazione All’atto della sentenza, la corte perugina aveva escluso l’aggravante della premeditazione, confermando invece quella dei futili motivi. Circa la prima – scrivono i giudici – la sera precedente il delitto, era il 17 maggio del 2016, Andriy Halan aveva dicusso animatamente con l’ex compagna, chiedendole un’ultima possibilità. Di fronte al suo rifiuto, però, il risentimento del 45enne verso Sandro Bellini – con cui la donna aveva già una frequentazione – era esploso, fino alla decisione di ‘farlo fuori’. «Una determinazione a uccidere – si legge nelle motivazioni – maturata poche ora prima della sua esecuzione, inidonea quindi a concretare l’aggravante della premeditazione».

L’ultima tappa giudiziaria della vicenda potrebbe essere rappresentata dalla Cassazione. I difensori di Andriy Halan hanno infatti deciso di ricorrere alla Suprema Corte per vedere riconosciute le ragioni del proprio assistito sia dal punto di vista tecnico che sostanziale, fra cui – date per assodate le censure già citate – il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Se i giudici romani dovessero confermare quanto deciso in precedenza, la condanna diventerà definitiva. Viceversa il processo regredirà e dovrà tenersi un nuovo giudizio d’appello.

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