Denunciò i camorristi e si rifugiò in Umbria

L’incredibile storia di Augusto Di Meo che 25 anni fu l’unico testimone dell’omicidio di Don Peppe Diana, a Casal di Principe: «Attendo ancora un riconoscimento dallo Stato»

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di P.C. 

Tutti lo conoscono come ‘Fioravante’ ma lui in realtà si chiama Augusto Di Meo: «Fioravante era il nome di papà… e devo dire che se sono riuscito ad andare avanti è anche grazie a questo perché a Casale lo conoscevano tutti».

La terra del clan

‘Casale’: in zona, il paese lo chiamano così, con una parola sola, che evoca abitazioni di campagna, rustici immersi nel verde. In Umbria ce ne sono tanti. Ma a pronunciarlo tutto, così come si chiama adesso, la sensazione cambia. ‘Casale’ sta per Casal di Principe, centro abitato in provincia di Caserta, popolato da migliaia di onesti lavoratori, ma purtroppo noto alle cronache per fatti di camorra e per il clan che da esso prende il nome: i ‘Casalesi’. Ma cosa c’entrano Casal di Principe e Augusto ‘Fioravante’ Di Meo con l’Umbria? Ora ve lo spieghiamo.

L’omicidio di Don Diana

Oltre che per il nome del clan, Casal di Principe è tristemente noto nelle cronache giudiziarie per uno dei casi in cui la criminalità organizzata ha ucciso un prete. Pochi mesi dopo l’omicidio, a Palermo, di don Pino Puglisi, a Casal di Principe, il 19 marzo del 1994, la camorra uccideva don Peppino Diana. Una morte rimasta per anni quasi sconosciuta alle cronache nazionali, per via di alcuni tentativi di depistaggio (anche mediatico) che puntavano a confondere le acque e coprire le responsabilità del clan.

Augusto e don Peppe Diana

Testimonianza decisiva

Nella parrocchia di San Nicola, quel giorno, a quell’ora, c’era pure Augusto Di Meo, che prima di andare a lavorare nel suo laboratorio fotografico era passato a fare gli auguri all’amico prete («un fratello», corregge lui), nel giorno di San Giuseppe: l’onomastico, al sud, è ricorrenza più importante del compleanno. Don Peppe a sua volta gli fece gli auguri per la festa del papà. 

Augusto era lì quando il sicario entrò in chiesa e chiese: «Chi è Don Peppino?». Lo vide prima e lo vide dopo, mentre si rimetteva la pistola nella cintura dopo aver esploso cinque colpi. Augusto era lì e non si voltò dall’altra parte. Né in quel momento né dopo. Denunciò: «Andai dai carabinieri, poi corsi a casa a dirlo a mia moglie e insieme capimmo che la nostra vita non sarebbe stata più la stessa». E così fu.

IL RACCONTO DELL’OMICIDIO A RAI STORIA – VIDEO

Ghettizzato a casa propria

Cambiò a tal punto che dopo qualche mese Augusto e la sua famiglia furono costretti ad andar via, emigranti non per lavoro (perché il laboratorio fruttava eccome, grazie al nome di Fioravante) ma per paura di ritorsioni, di vendette dirette o trasversali. A Casale era diventato impossibile vivere e lavorare: «Mi chiamavano ‘spione’, ‘sbirro’… (queste le calunnie riportabili; ndr)». Cominciarono le prime velate minacce.

Allora, non c’erano leggi che proteggessero sistematicamente i testimoni di mafia e Augusto non rientrò in alcun programma speciale. Rimase solo. E per proteggere i propri figli decise di andar via. Si ricordò di un fornitore di prodotti fotografici di Foligno, da cui prima suo padre e poi lui si erano serviti; gli chiese se cercavano un fotografo in zona e alla richiesta di ulteriori spiegazioni mentì, dicendo che era alla ricerca di nuove esperienze professionali: «Credo che solo negli ultimi anni, quando sono venuto allo scoperto, abbiano poi saputo la verità», racconta Augusto al telefono. 

Nuova vita in Umbria

Da Foligno gli dissero che stavano aprendo un centro commerciale a Spello e ci sarebbe stato bisogno di uno studio fotografico per sviluppare i rullini. Lui non se lo fece ripetere due volte: fece le valigie e partì. Dopo qualche settimana si ritrovò nel bel mezzo del cuore verde d’Italia, dove la camorra (allora) non sapevano nemmeno cosa fosse e le uniche guerre erano per chi faceva il quadro più bello all’infiorata. E lì cominciò la sua incredibile avventura.

Incredibile non tanto per la scelta di denunciare – quella che ogni persona perbene dovrebbe avere il coraggio di fare – quanto per l’indifferenza dello Stato, che – sì – poi lo ha protetto (con misure ordinarie) ma non ha mai fatto in modo di aiutarlo davvero, considerando quanto e come è stata stravolta la sua vita. Ad esempio, Augusto non ha mai avuto una scorta. Niente nuova identità, niente contributo economico, niente trasferimento, niente aiuto. Niente di niente. Solo un grazie e una pacca sulla spalla.

La stessa decisione di partire fu presa in assoluta autonomia: «Nessuno mi disse nulla – racconta a umbriaOn – nessuno si preoccupò per la mia incolumità, nessuno mi fece capire che siccome ero in pericolo dovevo prendere dei provvedimenti. Solo qualche conversazione amicale con qualche esponente delle forze dell’ordine che conoscevo perché facevo il fotografo. Ma nulla di ufficiale, nulla di istituzionale. Fui io a capire che dovevo fare qualcosa perché la situazione era diventata insostenibile».

Il figlio di Augusto nel negozio a Spello

Senza l’aiuto di nessuno

Così ecco il negozio a ‘La Chiona’, la casa in affitto e il tentativo di cominciare da zero una nuova vita, con una moglie e due figli piccoli: «Sviluppavo i rullini che mi portavano i clienti, ma guadagnavo poco; riuscivo a sostenermi perché ogni tanto venivo chiamato in occasione di eventi e feste private, nelle quali mettevo a frutto l’esperienza che avevo accumulato in Campania, dove c’è un’altra cultura della fotografia da cerimonia».

«Mi ambientai bene, i miei figli andavano a scuola, ma purtroppo le spese erano eccessive e io non ce la facevo. In pochi anni ho prosciugato tutti i miei risparmi per stare lontano da chi mi avrebbe potuto fare del male. Mi sono anche indebitato. Poi ad certo punto non ce l’ho fatta più e sono tornato giù, a fine anni Novanta. Ma se fossi entrato in un programma di protezione o se comunque avessi avuto una forma di aiuto economico, sarei rimasto tutta la vita a Spello, città che mi è rimasta nel cuore. E non nego che, potendo scegliere, ci tornerei».

«Ricordo ancora – racconta – la sensazione che provavo ogni volta che, dall’autostrada, vedevo l’uscita Capua. Mi prendeva un senso di tensione e di apprensione. Viceversa, ogni volta che la imboccavo per tornare in Umbria mi sentivo rinascere».

Per amore dei figli

Stupisce che in questa fase Di Meo non fosse protetto dallo Stato: «Probabilmente ero ‘attenzionato’, come si dice, probabilmente c’era stata una informativa, ma io non avevo comunicato nulla e, al tempo stesso, nemmeno a me fu mai comunicato se c’era una forma di protezione discreta nei miei confronti nel mio periodo umbro. Se c’era, io non me ne sono accorto. Del resto, presumo che tutti sapessero dove stavo, anche chi voleva farmi del male… ma stando lontano ovviamente ero un bersaglio meno facile».

«In famiglia non parlavo di certe cose, non facevo trasparire le mie paure, né con mia moglie tantomeno con i figli, ma devo dire che crescendo anche loro cominciavano a rendersi conto della situazione. Soprattutto il maschietto, il più grande, quando vedeva un’auto targata Caserta correva ad avvertirmi. Come se percepisse che dalle nostre terre potesse arrivare, non so, un pericolo, una minaccia… ».

Il documentario su Don Peppe (Rai Storia)

Augusto davanti al ministero: la sua battaglia continua

Burocrazia senza memoria

Sono passati 25 anni dall’omicidio di Don Diana e ancora oggi lo Stato non ha riconosciuto ad Augusto Di Meo lo status di testimone di giustizia. E non perché qualcuno metta in dubbio il suo contributo nel processo. Ma perché, quando tutto avvenne, la legge sui testimoni di giustizia (la n. 45 del 2001, che prevede specifiche misure di tutela e assistenza) ancora non c’era e i suoi effetti, a quanto pare, non possono essere retroattivi. Per lo Stato Italiano, Augusto è un semplice testimone oculare, il cui contributo è stato prezioso per la condanna degli assassini di Don Peppe (confermata in Cassazione nel 2004), ma non ne riconosce lo status di ‘testimone di giustizia’ o addirittura a suo modo vittima della criminalità organizzata, considerando quanto quell’episodio del 1994 lo abbia segnato: «Ancora oggi – dice Augusto – prendo una trentina di compresse al giorno per curare la pressione alta, scompensi cardiaci, depressione, tutte malattie che mi sono venute a seguito del calvario che ho vissuto»

LA RACCOLTA FIRME PER AUGUSTO DI MEO TESTIMONE E VITTIMA

L’Umbria non dimentica

Nel 2016 Augusto è tornato a Spello per partecipare a un incontro a lui dedicato, organizzato dai presidi dell’associazione Libera contro le mafie di Assisi e di Foligno. Negli stessi giorni ha ricevuto il premio nazionale ‘Masci’ destinato ai ‘testimoni del nostro tempo. Di tanto in tanto ritorna in Umbria, la terra dive si rifugiò ad espiare la sua unica colpa: aver fatto il suo dovere.

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