Terni, area di crisi: «Non ci sono requisiti»

Marco Cecconi (FdI-An) parla de «il Pd, il giapponese, il bambino mai nato e l’incubatrice» e di «destino segnato per le acciaierie»

Condividi questo articolo su

di Marco Cecconi
capogruppo FdI-An in consiglio comunale a Terni

Ha diviso il PD tra favorevoli e contrari: senatori di punta di parere avverso a parlamentari umbri di alto rango, sindaco indeciso e via così. Ha spaccato il centrosinistra, la coalizione di governo sia cittadino che regionale, da Terni a Perugia. Per tutti costoro, sotto elezioni ha sempre rappresentato una mina vagante: tra il dissenso sicuro di un’Assindustria che a lungo non ne ha voluto neanche sentir parlare e, all’opposto, l’adesione convinta del ‘sindacato di riferimento’. Alla fine – per non scontentare nessuno e tenere il piede come sempre in tutte le staffe possibili e immaginabili – dopo scontri e rinvii, il consiglio regionale alla vigilia della rielezione niente affatto scontata della Marini ha approvato un documento sull’area di crisi complessa (l’oggetto di questo contendere) che diceva tutto e il suo contrario e, soprattutto, permetteva di non farne di nulla come infatti è stato.

Quando poi, per una breve parentesi, l’associazione ternana degli imprenditori si è mostrata più possibilista, ecco che il tema è stato sdoganato, sottratto alle secche dell’indecisionismo imperante e un consiglio comunale congiunto Terni-Narni ha varato un altro documento (inutile quanto il precedente) per invocare a gran voce che il governo ci facesse la grazia di dichiararci, appunto, area di crisi, meglio se complessa.

Rispetto a tanto (momentaneo) unanimismo, la mia personale e convinta contrarietà – e quella di FdI-AN – non ha mai conosciuto eccezioni e viene da lontano, ossia dai tempi di una prima interrogazione che risale addirittura alle settimane immediatamente successive alla elezione di Di Girolamo nel giugno-2014.

Sostenevo e sostengo che il nostro territorio non abbia i requisiti di legge, in altre parole non presenti quei fattori di criticità che la legge prevede e richiede perché lo Stato intervenga nella riqualificazione (in pratica) di un’area industriale ormai dismessa.

Sostenevo e sostengo che, piuttosto che inseguire per l’ennesima volta un po’ di prebende pubbliche, erogate a fronte del certificato di morte di questa nostra città e del suo tessuto produttivo, sia di gran lunga preferibile impegnare tutto il possibile – in termini di risorse e progettualità – per rilanciare, implementare e ottimizzare quel che c’è e che vorremmo continuasse ad esserci.

Adesso Confindustria ha presentato a Nera Montoro un piano complessivo per il rilancio dell’industria manifatturiera ternano-narnese, il quale – forte delle ‘proiezioni’ elaborate nell’ambito dello ‘Studio Ambrosetti’ – fotografa centinaia di milioni di euro che le aziende private del territorio (innanzitutto le grandi multinazionali) dovrebbero investire nel prossimo triennio nelle proprie fabbriche, ai quali potrebbero aggiungersi finanziamenti pubblici auspicabilmente indirizzati ad interventi di supporto sì, ma di interesse generale come, ad esempio, ambiente e infrastrutture.

A prescindere dall’eventuale originalità della ricetta proposta (piuttosto scarsa, diciamocelo, quando si parla per esempio di quella verticalizzazione delle produzioni tipiche, che tutti inseguono da decenni, ma per le quali magari è adesso è finalmente arrivato il momento buono), quello che è certo è che tutto ciò non ha assolutamente niente a che vedere con l’area di crisi complessa: anzi, parliamo esattamente dell’opposto. Parliamo di indubbi segnali di vitalità di una parte importante del tessuto d’impresa locale.

Come il giapponese asserragliato nella giungla che dopo anni ancora non ha capito che la guerra è finita, qualcuno però nel PD – dal senatore Rossi all’avvocato Cavicchioli – continua anacronisticamente ad invocare l’attualità di questo strumento, anche dopo Nera Montoro.

Le possibilità sono solo due: o proprio non hanno capito, oppure fanno finta, magari per la solita ragione di non scontentare nessuno.

In alternativa, l’unica spiegazione altrimenti è che costoro – più di quanto non lo siamo noi tutti – siano da tempo più che informati di un destino ormai segnato di dismissioni delle Acciaierie. La produzione a caldo sta di fatto chiudendo e, quando non ci resteranno che un po’ di lavorazioni a freddo, dell’acciaio ternano si sarà orami persa ogni traccia, i prodotti che usciranno da viale Brin varranno tanto quanto quelli di qualunque altra parte del mondo e, insomma, prima o poi se ne potrà tranquillamente anche fare a meno…

Quando questo dovesse accadere, sicuramente accadrà con il beneplacito del governo Renzi e del ministro Guidi, incapaci – come del resto le Istituzioni locali – di salvaguardare le produzioni strategiche per il sistema nazionale e, per tutelare l’eccellenza, di improntare quegli strumenti straordinari che invece servirebbero.
Quando questo dovesse accadere, a quel punto l’area di crisi complessa – che al momento l’impresa ternana archivia come una ‘lettera ad un bambino mai nato’ – acquisterebbe persino quel senso remoto che magari, adesso, a nostra insaputa, la politica locale sta scientemente tenendo in incubatrice.

Potrà anche essere: ma sarà la tomba (oltre che delle Acciaierie e di Terni) anche del PD e di chi ne ha condiviso le responsabilità.

Condividi questo articolo su
Condividi questo articolo su

Ultimi 30 articoli