Ast, Daniele Moroni: «Ecco la mia verità»

Il drammatico memoriale dell’ingegnere ternano condannato per il rogo alla ThyssenKrupp di Torino. Dalla sentenza alle ultime ore di libertà insieme ai familiari, fino alla ricostruzione dell’intera vicenda giudiziaria

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Un memoriale drammatico di 80 pagine in cui Daniele Moroni, l’ingegnere ternano condannato in via definitiva a 7 anni e 6 mesi per il rogo alla Tk-Ast di Torino, ripercorre la vicenda in tutti i suoi aspetti – materiali e giudiziari – ed espone, senza veli, la sua verità. Quella di un uomo che – al pari degli altri condannati, come l’ex ad Marco Pucci – non si sente colpevole ma è costretto ad accettare la sentenza e quindi il carcere: «Anche se la mia vita è rovinata». Uno sfogo quello del 68enne, ex direttore tecnico dello stabilimento di Terni, in cui i tratti umani – l’abbraccio e le lacrime della moglie dopo la sentenza della Cassazione, l’angoscia delle ultime ore vissute in libertà – si incrociano con l’analisi lucida dei fatti. Il documento, del quale vi proponiamo un estratto, è stato diffuso in rete.

LEGGI IL MEMORIALE DI DANIELE MORONI: «LA MIA VERITÀ»

13 maggio, l’epilogo
Secondo esame da parte della Corte di Cassazione, in questo caso davanti alla IV Sezione. Come in tutte le udienze passate sono presente in aula, unico degli imputati e condannati. In questo caso posso solo essere spettatore, ma preferisco vivere di persona l’evento che potrebbe cambiare la mia vita. Comincia l’udienza con l’intervento del Relatore che in modo efficace e con uno sforzo oratorio notevole riassume, in più di un’ora, la storia dei processi ed illustra i motivi di ricorso presentati dalla difesa. Prende poi la parola il Procuratore Generale per esprimere le sue valutazioni sui motivi di ricorso. La tensione in aula è palpabile. L’aula è piccola e gli avvocati, molto numerosi, sono stretti uno vicino all’altro e riempiono tutte le sedie disponibili al tavolo di fronte alla Corte. Sulla destra ci sono i parenti delle vittime, come sempre presenti in modo visibile e appassionato. Tutti sono tesi ad ascoltare le parole del Procuratore Generale che, insieme al relatore, ha sicuramente letto buona parte degli atti tra i quali almeno la sentenza della Cassazione in Sezione Unite, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Torino e i motivi di ricorso. Poiché è difficile immaginare che gli altri giudici della IV Sezione abbiano avuto il tempo necessario per approfondire attraverso la lettura il contenuto di una imponente mole di carta accumulata in circa 9 anni di processi, è evidente che la relazione del Relatore e, soprattutto, le valutazioni del Procuratore Generale sono utili ad indirizzare la comprensione degli altri Giudici fornendo loro gli elementi necessari alla decisione finale. Con chiarezza e in modo deciso e inequivocabile il Procuratore Generale ha definito ammissibili alcuni dei più importanti motivi di ricorso della Difesa. In particolare, secondo il Procuratore Generale, la Corte di Assise di Appello di Torino non avrebbe tenuto in considerazione l’impossibilità tecnico/temporale di realizzare l’impianto automatico antincendio in un tempo compatibile con l’incidente del dicembre 2007 e, dunque, non avrebbe correttamente applicato il bilanciamento tra le attenuanti e le aggravanti per le pene comminate. Il Procuratore Generale, che rappresenta l’Accusa, ha dunque accettato e fatte sue le ragioni della Difesa! Naturalmente dal mio punto di vista non poteva essere altrimenti, in quanto i motivi di ricorso erano così logici e comprensibili che non potevano non essere accolti.
Al termine dell’intervento del Procuratore Generale, c’è stata una reazione violenta e rumorosa dei parenti delle vittime che hanno abbandonato l’aula gridando tutto il loro disappunto temendo un nuovo annullamento con rinvio e, dunque, un terzo processo di appello per rideterminare, ancora una volta, le pene. È comprensibile una simile reazione di fronte a un ulteriore prolungamento della vicenda giudiziaria a più di 9 anni dal tragico evento. Uno dei parenti, la madre di Antonio Schiavone, avendomi riconosciuto fra i presenti, mi ha aggredito verbalmente augurando che la mia famiglia possa morire bruciata. Anche questa reazione, che mi ha colpito personalmente, è comprensibile ed io non serbo alcun rancore per quella maledizione. Il dolore dei parenti delle vittime è immenso, la sete di giustizia che si confonde con quella di vendetta è comprensibile, la frustrazione per vedere allontanarsi la fine di questa vicenda altrettanto condivisibile. I Giudici della Corte di Cassazione escono dall’aula, l’attesa per la sentenza è vissuta con evidenti diversi stati d’animo: moderato ottimismo della difesa e grande contrarietà dei parenti delle vittime. Solo questo secondo stato d’animo ha avuto, come al solito, eco e diffusione sui mezzi di informazione che hanno diffuso in tempo reale le proteste e le minacce dei parenti. Sono rientrato a casa, consapevole del fatto che ci sarebbero volute ore prima del pronunciamento della sentenza; ore nelle quali ho ricevuto numerose telefonate di speranza di chi attraverso i diversi media stava seguendo la vicenda. Su diversi canali televisivi continuano ad andare in onda interviste ai parenti delle vittime che sono fuori dal palazzo della Corte di Cassazione in attesa del verdetto finale. Esprimono indignazione per quanto in quel momento si pensava stesse per avvenire: un ennesimo rinvio dell’esecuzione delle pene per quelli che sono stati sempre considerati degli assassini dei propri cari. Da nessuna parte si accenna all’eventualità che un approfondimento del caso possa portare ad una definizione più esatta delle pene da commisurare a seconda dei ruoli e delle competenze dei diversi imputati. Evidentemente a nessuno interessa capire il significato delle parole del Procuratore Generale a riguardo dell’assenza del nesso causale tra la mancata realizzazione dell’impianto di rilevazione e spegnimento automatico e il verificarsi del tragico incidente. In tarda serata improvvisamente appare una scritta sullo schermo: “processo Thyssen confermate le condanne”. È finita! La sentenza ha respinto i motivi di ricorso ed ha confermato nel mio caso la condanna a 7 anni e 6 mesi di reclusione.
Il cuore si è fermato. Mi è mancato il respiro. In quel momento mia moglie accanto a me è scoppiata in un pianto disperato. Quello che per tanti anni avevo temuto si stava verificando: dopo l’infamia della condanna, ora veniva anche la punizione: il carcere. Rapidamente tutta la famiglia si è stretta intorno a me e numerose testimonianze di solidarietà mi sono giunte per telefono. Poi ho deciso di isolarmi per stare solo con mia moglie le poche ore che restavano. Non eravamo pronti a questa evenienza, non avevamo mai voluto prepararci semplicemente perché questo pensiero era inaccettabile. Quelle ore resteranno per sempre nella nostra memoria: le più disperate, dolorose e intense della nostra vita insieme, con la consapevolezza di doverci separare per un lungo periodo di tempo, per mia moglie di dover affrontare le responsabilità della famiglia e della vita quotidiana senza di me e per me di dover entrare in un ambiente sconosciuto, considerato pericoloso e pieno di insidie. Tutto questo con l’intima e sincera convinzione di subire un’ingiustizia. Mi attendeva una punizione terribile per qualcosa che non riuscirò mai a comprendere. Il carcere non servirà a nulla: parlare di recupero, riabilitazione, integrazione non ha senso nel mio caso. Sarà solo una punizione tragica, mi verrà sottratto il tempo. Alla fine del periodo di detenzione, se ci arriverò, sarò solo più vecchio, più amareggiato, più confuso, più triste. Nulla sarà più come prima, la mia vita sarà rovinata. Mi sono sempre considerato una persona con un carattere forte e positivo, in grado di adattarsi alle diverse situazioni e di affrontare con coraggio le difficoltà. Per la prima volta, però, non sono sicuro di riuscire a superare questa prova, le privazioni fisiche e psichiche che mi attendono mi appaiono troppo grandi per essere sopportate.

«La mia verità»
Mi sembra opportuno in questa ultima parte di questo lavoro ribadire alcune premesse generali. Tutte le considerazioni esposte sono basate su documenti o testimonianze provenienti dagli atti ufficiali dei processi e, quindi, facilmente accessibili e controllabili. Evidentemente alcune interpretazioni e considerazioni sono assolutamente personali, basate, pertanto, su esperienze, valutazioni ed affermazioni che riflettono esclusivamente la mia percezione di quanto accaduto; non è, peraltro, possibile descrivere un avvenimento e le cause che lo hanno generato senza inserire un punto di vista personale. Questo punto di vista si discosta spesso da quello dell’accusa e delle giurie dei diversi gradi di giudizio e può apparire apertamente di parte e volto a presentare la sentenza finale come l’ennesimo errore giudiziario. Non è questo il mio pensiero.
Ho già avuto modo di affermare che, nel pieno rispetto dell’operato della magistratura, devo accettare una sentenza terribile che mi condanna a più di sette anni di reclusione. Questo processo ha segnato nove lunghi anni della mia vita e questa pena è destinata a porre fine ad una vita normale, fatta di relazioni, di affetti, di libertà. Il mio proposito era quello di fornire informazioni ed interpretazioni che fossero utili a chi volesse provare a costruirsi un giudizio autonomo sulla vicenda, nella evidente speranza che, almeno nell’opinione di questi, la valutazione sul mio operato fosse concorde con la mia, arrivando alla conclusione che quanto accaduto è stato causato da una serie di circostanze negative e difficilmente prevedibili. Proprio questo è forse l’aspetto più incredibile della vicenda: alla base delle diverse condanne c’è una valutazione di prevedibilità dell’evento. Non è bastato argomentare che non esiste traccia documentale di incidenti simili in linee di trattamento dell’acciaio in generale e di quello inossidabile in particolare, da quando questo tipo di processo è stato adottato; non è stato sufficiente ricordare che nel solo gruppo della ThyssenKrupp esistevano 25 linee con le caratteristiche simili a quelle della Linea 5 di Torino e che, pur essendo universalmente noto l’incendio di Krefeld, in nessuno di questi impianti, al momento dell’incendio del dicembre 2007, erano stati adottati provvedimenti come quelli di spegnimento automatico. Il che significa che questa capacità di previsione dell’evento e delle sue drammatiche conseguenze, non è stata messa in campo da tanti altri dirigenti, tanti altri tecnici in diverse parti del mondo.
Cosa avrei dovuto prevedere? Che l’impianto sarebbe stato sporco di carta e di olio. Che l’aspo non sarebbe stato centrato rispetto all’asse della linea. Che il controllo dell’avvolgimento della carta sarebbe stato effettuato in manuale anziché in automatico. Che tutto il personale di gestione della linea si sarebbe riunito contemporaneamente all’interno del pulpito principale. Che nessuno avrebbe sentito per circa 10 minuti il rumore assordante proveniente dallo sfregamento del nastro contro le carpenterie della linea. Che nessuno avrebbe visto per circa 10 minuti le scintille provenienti dallo sfregamento e lo svilupparsi dell’incendio. Che tutto il personale si sarebbe lanciato sull’incendio per cercare di spegnerlo, pur avendo questo raggiunto, dopo circa 10 minuti, una dimensione importante sicuramente più grave di quelli a cui erano abituati. Che a seguito dell’incendio, i flessibili si sarebbero rotti causando la proiezione di olio incandescente. Che nessuno avrebbe agito sui pulsanti di emergenza. Che nessuno avrebbe attivato la squadra di emergenza. Questo elenco di circostanze e comportamenti pone almeno il dubbio che sarebbe stato veramente difficile prevedere il loro svolgimento sia per la necessità che si realizzassero tutti e tutti con la effettiva sequenza descritta. Un altro punto fondamentale dell’accusa e delle sentenze e la caratteristica del reato ascrittomi. Non sono stato condannato per aver commesso una azione sbagliata o per non aver commesso una azione corretta. Sono stato condannato per non aver segnalato a chi aveva il potere di decidere e di fare, il rischio presente sulla Linea 5 di Torino e, quindi, l’esigenza di installare un sistema automatico di spegnimento degli incendi. In termini legali questo tipo di reato si definisce omissivo: pur avendo l’informazione del rischio e la previsione del possibile evento incidentale, avrei omesso di segnalare l’esigenza di intervenire per effettuare quanto necessario ad evitare se non l’incendio, almeno le sue conseguenze drammatiche. Perché è lapalissiano che un sistema di spegnimento automatico degli incendi non impedisce, al verificarsi di certe condizioni, lo sviluppo di un incendio; può peraltro, se correttamente installato, se funzionante, se efficace, limitare le conseguenze dell’incendio. Sulla capacità di prevedere quanto accaduto mi sono già espresso, ma in questo tipo di reato sorge spontanea un’altra considerazione: come si può essere sicuri che una mia eventuale segnalazione avrebbe causato una conseguente reazione in grado di cambiare il corso degli eventi come si sono effettivamente svolti? Oppure il reato omissivo è tale a prescindere dal risultato dell’azione non attuata? Sembra una valutazione almeno miope ed esclusivamente formale quella basata sull’assenza di una segnalazione, come un verbale di riunione o una semplice mail, senza curarsi se l’efficacia di questa segnalazione sarebbe stata tale da evitare quanto accaduto quella tragica notte.
Un’ultima considerazione sul reato omissivo: a chi avrei dovuto fare la segnalazione del potenziale rischio presente sulla Linea 5 di Torino? Evidentemente a chi avrebbe avuto la possibilità prima di tutto di capire il contenuto della segnalazione, poi di mettere in campo le azioni che quel tipo di segnalazione suggerivano. In altre parole all’Amministratore Delegato della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni, Harald Espenhahn, mio superiore diretto. Effettivamente, per sua stessa ammissione durante i dibattimenti, egli aveva sia le capacità tecniche per comprendere quelle problematiche sia l’autonomia e il potere decisionale per intervenire. Egli ha ammesso di conoscere le normative tecniche internazionali che regolano la materia antincendio; egli ha ammesso di aver deciso il differimento degli interventi sulla Linea 5 di Torino al momento del suo trasferimento a Terni. Ma l’Amministratore Delegato è anch’esso imputato nello stesso processo, addirittura condannato in primo grado per omicidio volontario con dolo eventuale. Successivamente questa condanna è stata ridimensionata in omicidio plurimo con colpa cosciente, ma al di là delle formule giuridiche risulta evidente che il destinatario della mia mancata segnalazione conosceva le situazioni almeno come me e, per quanto riguarda lo stabilimento di Torino, sicuramente meglio di me avendo la delega alla produzione di tutta l’azienda. In conclusione, facendo una rapida sintesi, devo scontare una pena a sette anni e sei mesi di reclusione per non aver segnalato l’esigenza di eseguire dei lavori, che avrebbero impedito un evento non prevedibile ad un soggetto che ne era allo stesso modo già informato e senza la prova che tale segnalazione avrebbe cambiato il corso degli eventi; tali lavori, infine, non sarebbero stati realizzabili in tempi utili per evitare l’evento del dicembre 2007. A questo punto ritengo inevitabile delle considerazioni su quella che ho definito la mia verità.
Nel titolo “mia” è volutamente scritto in minuscolo in quanto, senza addentrarsi in considerazioni psicologiche o letterarie, non esiste una sola verità e lo stesso fatto può essere interpretato e valutato in modi molto differenti. Pur essendo quindi consapevole che anche la mia versione della verità potrebbe essere sbagliata e contestata da altri punti di vista forse più autorevoli e qualificati, ritengo doveroso esporla anche nel rispetto delle vittime e dei loro familiari. Torniamo solo per un attimo al contesto generale dello stabilimento di Torino nel 2007: la chiusura era stata annunciata; l’accordo con le istituzioni e i sindacati era stato firmato; le migliori professionalità stavano lasciando l’azienda per ricollocarsi nel mercato del lavoro; i ritmi di produzione calano; la preoccupazione per il futuro è grande e palpabile. È innegabile che anche la gestione dello stabilimento risenta di questa situazione: le carte dimostrano che le attività di manutenzione e di pulizia non sono diminuite, ma l’efficacia di queste azioni è sicuramente minore. La precarietà è sicuramente uno stato che non facilita lo svolgimento di qualsiasi attività. Da una parte, il personale, preoccupato per il suo futuro, può essere distratto e poco concentrato; dall’altra, l’azienda, impegnata a costruire il suo futuro a Terni, può trascurare la gestione quotidiana. Tutti questi aspetti sono emersi con evidenza durante i dibattimenti; il comportamento del personale è stato giudicato comprensibile in quanto vittima delle decisioni assunte dall’azienda; il comportamento della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni è stato giudicato colpevole in quanto dettato dal solo profitto con spregio delle condizioni di sicurezza dei lavoratori. Se la ragione fondamentale di quanto accaduto fossero state, quindi, le condizioni dello stabilimento di Torino sia per l’aspetto operativo sia per quello gestionale, quale sarebbe stata l’azione da mettere in campo per prevenire l’incidente della Linea 5? Fermare la produzione e chiudere lo stabilimento al momento della decisione del trasferimento dei suoi impianti a Terni.
L’accordo sulla chiusura dello stabilimento di Torino fu, come tutti gli accordi, frutto di un compromesso fra diverse esigenze: da una parte, l’azienda aveva il tempo di trasferire gradualmente gli impianti a Terni, con una perdita di produzione limitata di volta in volta a quella dell’impianto in corso di trasferimento; dall’altra, il personale aveva il tempo per trovare una soluzione occupazionale alternativa. Visto alla luce di quanto accaduto quell’accordo fu sbagliato. Occorreva mettere in atto procedure di sostegno al personale per un tempo congruo a trovare soluzioni appropriate e concentrare l’operazione di trasferimento degli impianti in una unica fase da rendere la più breve possibile. Questa alternativa sarebbe stata forse più traumatica e decisamente più costosa, ma avrebbe evitato una situazione di incertezza e di precarietà che provocava situazioni di degrado e di potenziale pericolo nello stabilimento. E non solo il pericolo di incendi, che ripeto era impossibile da prevedere nella sezione di ingresso della Linea 5, ma quelli legati alla logistica, agli spostamenti dei carrelli e ai sollevamenti dei carroponti, alla gestione degli acidi, agli interventi sui quadri elettrici, in tutte quelle attività in cui alla professionalità del personale devono unirsi concentrazione e condizioni ambientali favorevoli. Ma quell’accordo fu firmato e benedetto da tutti: azienda, sindacati, istituzioni. Quindi, tutti furono responsabili e, in definitiva nessuno fu responsabile? Credo di aver fornito elementi sufficienti affinché chi abbia avuto la pazienza di arrivare in fondo a questa lettura possa darsi una risposta. A questo paziente e curioso lettore, un sincero ringraziamento.
Daniele Moroni

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