Traffico di rifiuti, sequestri ad Orvieto

Per gli inquirenti il giro d’affari di rifiuti metallici contaminati era di 45 milioni. L’azienda orvietana che è stata visitata dagli investigatori è la ‘Alluminio Frantumati’

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Due anni di indagini, da parte della Guardia costiera coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, hanno portato a sgominare un cartello di imprese dedito al traffico internazionale di rifiuti metallici contaminati. Sette le ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip di Roma che ha disposto anche il sequestro preventivo di diversi stabilimenti nel Lazio, in provincia di Viterbo e anche in Umbria, a Orvieto. Confiscati anche svariati milioni di euro derivanti da illeciti profitti.

IL VIDEO DEGLI ARRESTI 

Orvieto L’azienda orvietana che è stata visitata dagli investigatori è la ‘Alluminio Frantumati’, ex  ‘Trentavizi’, che si occupa appunto di triturazione di rifiuti di alluminio.

La ‘mission’  Sul suo sito internet la ‘Alluminio Frantumati’ – la cui sede operativa sta in via dei Fornaciari, a Fontanelle di Bardano a Orvieto, ma che ha sede legale a Prato – si presenta così: «Nasce nel 2012 e si occupa del commercio e intermediazione di rottami, ferroleghe e metalli in genere La nostra missione è vendere/comprare metalli alle migliori condizioni di mercato. Le attività della azienda non si limita solo al trading di metalli ma anche alla lavorazione di rottami provenienti da officine meccaniche dagli smaltimenti industriali e dalla dismissione di impianti e attrezzature. Infatti siamo in grado di fornire prodotti in Nickel, Ottone, Rame, Acciaio Inox, Zinco e Alluminio. Il nostro mercato di riferimento sono le maggiori fonderie, raffinerie e acciaierie italiane ed estere (Europa, America, Far East, Africa) a cui offriamo i nostri metalli e rottami ferrosi e non».

I rifiuti Nascosti nei container, secondo gli inquirenti i rifiuti metallici contaminati venivano spediti in Cina, Indonesia, Pakistan e Corea. Le indagini, che sono andate avanti per due anni, hanno consentito di sgominare un’organizzazione criminale che caricava i rifiuti nei porti di Livorno, La Spezia, Genova, Ravenna e Civitavecchia. E proprio dalle ispezioni ad alcuni container sospetti individuati nel porto di Civitavecchia dalla Capitaneria di Porto e dall’Agenzia delle dogane, sono partite le indagini, coordinate dall’ammiraglio Giuseppe Tarzia, allora comandante del porto di Civitavecchia e oggi a Livorno.

Il ‘riciclo’ Secondo le indagini, i soggetti arrestati e le loro aziende, mediante vari giri di false attestazioni e certificati, acquistavano rifiuti industriali complessi e contaminati, su tutti da Pbc, policlorobifenili – di tossicità equiparata alla diossina e, dopo aver simulato lo svolgimento di procedure di bonifica in Italia, lo rivendevano tal quale come materiale recuperato e ‘pronto forno’ per un nuovo ciclo produttivo. Ma in realtà i rifiuti nel nostro paese subivano solamente una mera ‘macinatura’ per poi essere spediti nei vari paesi ancora fortemente inquinanti senza scrupolo da parte degli indagati per la salute degli operatori in contatto con le sostanze nocive.

End of Waste E’ questo il nome che è stato dato all’operazione e che identifica proprio il rifiuto che cessa di essere tale al termine di un idoneo ciclo di trattamento e bonifica e torna ad essere materia prima da impiegarsi in un nuovo ciclo produttivo. Proprio con la dicitura ‘End of waste’, gli indagati, attraverso documentazioni false prodotte da aziende, esportavano i rifiuti indicando che erano pronti a un nuovo uso.

Milioni di affari Secondo quanto finora ricostruito, ogni anno il giro d’affari si aggirava sugli oltre 46 milioni di euro« a cui si deve sommare – chiariscono dalla Guardia costiera – l’effetto negativo indiretto su tutti gli operatori rispettosi delle regole del settore, in particolare le aziende sane che offrono sul mercato i servizi di bonifica, limitando per esse i margini di guadagno, senza contare i maggiori costi per le imprese che conferiscono lecitamente i rifiuti».

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