Area crisi, avere poker e nemmeno saperlo

L’ex assessore comunale di Terni Giorgio Armillei: «Le idee ci sono ma manca una strategia larga, presidiata con autonomia, credibilità e autorevolezza»

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Giorgio Armillei

di Giorgio Armillei
Ex assessore comunale a Terni

Finalmente sembra aprirsi una discussione pubblica sulla gestione dell’intervento Regione/Governo per l’area di crisi complessa.

Dopo le primissime resistenze di Confindustria infatti non c’erano stati che applausi anche se la platea non era per la verità numerosissima. Ora il clima sembra cambiare, complice un timing un po’ logorato e una qualche incapacità del governo regionale di distinguere chiaramente tra beni collettivi per la competitività industriale dell’area ternana e sussidi alle imprese, come ha scritto Giuseppe Croce qualche giorno fa.

Si avrebbe bisogno di un autentico processo di progettazione condivisa e quindi quantomeno di un’ampia discussione non legata alle logiche asfittiche della concertazione sociale, per di più una concertazione a cose fatte. Ma almeno qualche spiraglio si è aperto, la porta è socchiusa, possiamo cercare di vedere e distinguere. Per distinguere proviamo a fare un passo indietro per inquadrare la discussione.

La Commissione europea predica da anni sinergia tra le diverse politiche, concentrazione delle risorse e focalizzazione territoriale. Il che significa mettere le politiche di sviluppo nazionali, regionali e comunali a servizio di pochissimi obiettivi, quelli realmente indispensabili per ciascun territorio. Farlo allocando su questi pochissimi obiettivi tutte le risorse finanziarie possibili. E farlo “dal basso” cioè sostenendo l’interazione virtuosa tra gli attori del territorio, in modo da fargli sperimentare e apprendere che la cooperazione rende più dell’isolamento.

Ecco descritto quello che invece il governo regionale non sta facendo a Terni. Concentrazione degli obiettivi al di sotto delle necessità, anche se in linea con gli standard minimi imposti dai regolamenti europei; concentrazione delle risorse insufficiente rispetto alle specializzazioni attuali e potenziali dell’area ternana; ancora più bassa, quasi nulla, la costruzione di prassi istituzionali per la cooperazione tra i soggetti locali. Questo il quadro attuale.

Dal che risulta quasi inevitabile che il poker che potrebbe essere giocato (Agenda urbana, Area di crisi complessa e industria 4.0, Piano periferie, Misure specifiche del POR FESR 2014/2020) resti nelle mani dei giocatori che non si sono forse neppure accorti di averlo, nonostante la qualità dell’expertise delle strutture tecniche regionali. Ciascuno si tiene le sue carte: sinergia e concentrazione restano al palo.

Ora il sindacato ha un sussulto ed esce allo scoperto. Certo non sembra avere le idee chiarissime come le ha almeno qualcuno tra i suoi leader nazionali. “Il sindacalista o il politico che, quando non sa cosa dire, evoca la parola magica della politica industriale o dà la colpa alla globalizzazione, all’Europa e all’euro o alla tecnologia, oltre a dire balle, insegue i populisti sul loro stesso terreno, rimanendo pure indietro. Si può dire? L’Europa, l’euro, la globalizzazione e la tecnologia hanno fatto meglio al lavoro di tanti soldi, anche pubblici, spesi male” dice Marco Bentivogli segretario nazionale FIM CISL. E tuttavia il segnale c’è e pesante: basta recinti stretti, arrestare il crollo, non si pensi al consenso, il passo è da routine e così via.

Bisognerebbe capire quanto il sindacato sia poi in prima linea nel sostenere il cambiamento sul serio, ad esempio giocando fino in fondo la partita della flessibilità contrattuale e organizzativa delle imprese, negoziando soluzioni a livello di azienda favorevoli a innovazioni 4.0. Tuttavia la questione è di nuovo sul tavolo. La strategia dell’area di crisi complessa rischia di strutturare un processo ancor più debole di quelli, non certo brillanti anche per responsabilità sindacali, delle precedenti stagioni di programmazione negoziata, dal contratto d’area al patto di territorio. E nonostante siano radicalmente gli cambiati strumenti di policy disponibili e soprattutto la realtà tecnologica delle imprese.

Il gioco non è però tutto in mano al governo regionale e al sindacato. Ci sono altri attori che hanno un ruolo rilevante in questa partita e sembrano seguire strategie che non puntano su sinergia, concentrazione e specializzazione. Qualche esempio.

Da anni si ripete il mantra della manifattura; del pericolo della terziarizzazione dell’economia dell’area ternana – dimenticando tra l’altro che la partita industria 4.0 si gioca proprio sulla servitizzazione dell’industria; della vocazione industriale del territorio. E poi arriva la strategia industria 4.0 e l’innovation hub – uno degli strumenti operativi della strategia – si realizza a Perugia. Delle due l’una: o non ci sono soggetti industriali all’altezza nell’area ternana o questo innovation hub è fuori posto.

Ancora. Serve una relazione stretta tra Università, imprese, governi locali e organizzazioni sociali. Cioè un legame di prossimità tra università e imprese del territorio, un’interazione quotidiana che produca scambi, confronti, emulazione, integrazione: insomma un’atmosfera industriale. Da anni Unipg si è candidata e imposta per questo. Lo faccia Unipg o qualcun altro potrebbe non fare differenza. Il punto è che c’è bisogno di una dinamica presenza universitaria sul territorio, la famosa terza missione dell’Università accanto alla didattica e alla ricerca. Sbuca fuori invece una sede per attività didattiche di un’università telematica che tanto di buono può fare tranne che essere attore di prossimità e di relazioni territoriali, offrendo per giunta anche corsi con caratteri “remedial”.

E ancora. Si sottoscrive un manifesto per la rigenerazione urbana tra tutte le grandi imprese multinazionali del territorio, facendo così emergere non solo l’interesse della città per questa presenza industriale ma l’intreccio virtuoso tra interessi delle aziende e interessi collettivi della città. Mettendo cioè in luce quei vantaggi della cooperazione che sono alla base di una sana visione delle attività di pianificazione urbana condivisa. Poi invece parte un piano periferie per la rigenerazione urbana che di quel manifesto si dimentica, in quanto a processo e in quanto a contenuti. E anche in questo caso l’expertise non mancava di certo.

Conclusione. Le idee ci sono ma manca una strategia larga, presidiata con autonomia, credibilità e autorevolezza. E manca un vero presidio ai diversi livelli di governo. Per realizzare i grandi programmi di sviluppo territoriale del suo New Deal, Roosvelt sbaraccò politici e agenzie regionali esistenti e creò organizzazioni e poteri nuovi di zecca, dotati di grandi competenze tecniche che rispondevano a lui e ai governi locali. Senza innovazioni istituzionali non ci sono innovazioni politiche.

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